Teatro Alberghiero La fortuna con la F maiuscola,y successo confermato
Un divertissement dal retrogusto amaro questo bel lavoro di Eduardo De Filippo e Armando Curcio, La fortuna con la F maiuscola, scelto e rappresentato dal Laboratorio di Arti Sceniche dell’Istituto Alberghiero di Molfetta nel corso della XII edizione della Giornata dell’Arte e della Creatività Studentesca. La messinscena è avvenuta presso la Sala Teatro della Sede succursale dell’Istituto, in via Giovinazzo, per l’occasione gremita da un pubblico partecipe, che i giovanissimi attori hanno saputo coinvolgere nell’emozionante turbine del gioco scenico. L’assunto della commedia è tutt’altro che rasserenante e sarà affidato, nel terzo atto, alle sconsolate parole rivolte dal protagonista, Giovanni Ruppolo (Emanuele Lanotte), al notaio Bagliulo (Cristian Gadaleta): “Quando uno nasce sfortunato, non ce sta niente da fare”. Al centro delle vicende la famiglia Ruffolo, composta da Giovanni e sua moglie Cristina (Sara Minini), che hanno adottato, ma senza un riconoscimento ufficiale, un nipote della donna, Erricuccio (Francesco Torre), rimasto prestissimo orfano. La famiglia versa in condizioni economiche a dir poco precarie, che ricordano quelle dei goffi e simpatici protagonisti di Miseria e nobiltà; il tutto è aggravato da Erricuccio, che, non brillando per intelligenza, provoca guai a catena, suscitando continui litigi tra i genitori adottivi. All’improvviso, la fortuna con la “f” maiuscola bussa all’uscio di casa Ruppolo, nelle sembianze di un notaio che prospetta la succosissima eredità di un fratello di Giovanni, baciato dalla buona sorte nel suo “sogno americano” e ora deceduto. Ma una sorta di nemesi si abbatterà su Giovanni: lui, che per anni si era rifiutato di riconoscere un figlioccio scemo, ma in fondo affezionatissimo (come emergerà nel finale) al padre putativo, sarà punito per il frettoloso – ben pagato, ma illegale – riconoscimento di un sedicente barone albagioso (Valerio Giancaspro). Il testamento del fratello americano, infatti, prevede che, nel caso dell’esistenza di figli legittimi di Giovanni, il suo patrimonio sia trasmesso a questi ultimi. L’odioso barone si dimostrerà (premiato dalla clausola capestro del testamento) inizialmente magnificente nel voler rinunciare a quella che reputa “un’eredità di stracci”, salvo poi abbarbicarsi con veemenza a una ricchezza piovutagli addosso in virtù di un’ingiusta casualità. La soluzione finale è sconcertante (e non vogliamo svelarla, in caso di repliche), ma nasce dall’idea di fondo che la miseria sia un opprimente carcere e che a tale condizione sia preferibile persino un soggiorno nelle patrie galere. Un gradevolissimo lavoro quello allestito dal laboratorio, sotto la regia e il coordinamento artistico degli insegnanti Adelaide Altamura, Teresa de Leo, Carla Calò, Rosita Napolitano, Ida Porcelli, Annamaria Russo, Antonio Allegretta; ottimi anche la scenografia e i costumi, curati dalla docente Antonietta Travaglini. La commedia si giova dell’apporto offerto dalla vivace rappresentazione degli ambienti popolari napoletani, dominati dal pettegolezzo pruriginoso sulla vita sentimentale della bamboleggiante Donna Amalia (Elena Paziuk) e sui suoi “abbandoni” extraconiugali, puniti a colpi di rivoltella, grazie a Dio puntualmente a vuoto, dal marito Don Vincenzo (Antonio Matera). Il coro popolare, animato da Concetta (Michela Solaro) e Assunta (Grazia Giannella), commenta con brio gli eventi; una scelta decisamente apprezzabile, da parte del coordinamento artistico, è stata quella di conservare le inflessioni dialettali legate ai diversi centri di provenienza dei giovani interpreti, senza cercare di livellare tutto sulla napoletanità. In questo modo, si è salvaguardata la ‘sprezzatura’ nelle singole interpretazioni e la “vena popolare” è emersa con vigore, trasformando l’intera serata in una gioiosa festa della gioventù creativa. Tutti bravi gli interpreti, soprattutto i tre protagonisti: Emanuele Lanotte è stato il mattatore della serata, calandosi con disinvoltura e ironia nelle vesti del popolano spiantato, irascibile e sventurato, ma all’occorrenza anche industrioso; Sara Minini ha retto benissimo il ruolo di nume tutelare della casa, incarnando alla perfezione il femminino della madre mediterranea, che coniuga saggezza popolare e affetto di chioccia per il figlio cresciuto come suo. Francesco Torre ha vestito in modo esilarante i panni dello scemo- ma-non-troppo, animando il gioco scenico con apprezzabile, ma al contempo garbato, istrionismo. In ogni caso, un plauso è doveroso per tutti gli interpreti: a quelli già citati, si aggiungano Domenico Pascullo, Michela Solaro, Geni Mersinllari, Noemi Bellifemine, Giuseppe Pappagallo, Mirko Petrone e Antonio Altomare. È d’obbligo anche ricordare l’infaticabile opera del dirigente, prof. Pellegrino de Pietro, nella promozione della cultura a livello scolastico, attraverso attività come queste, finalizzate ad “affinare negli studenti il gusto del bello” e a consentire loro di accostarsi all’arte, nella fattispecie attraverso il dirompente potere dell’umorismo. Lo spettatore è indotto a riflettere sul fatto che, anche quando la Dea bendata sembra bussare alla nostra porta (in un primo momento Giovanni si riterrà fortunatissimo, perché, per il riconoscimento del barone, gli sono state offerte 30.000 lire), non dobbiamo abbandonarci con fiducia al suo flusso, nel caso in cui ciò non comporti la rinuncia all’unico, vero, valore intramontabile nell’esistenza di un uomo: l’onestà. Diversamente, la Fortuna si convertirà presto in sfortuna e allora agli incauti toccherà assumersi le responsabilità delle proprie azioni.
Autore: Gianni Antonio Palumbo