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Teatrermitage: “L'istruttoria”, atto di accusa del nazifascismo CULTURA
15 febbraio 2006

Quando la storia si fa canto e il dolore diviene poesia, nascono opere come “L'istruttoria” di Peter Weiss. Il Teatrermitage, in occasione delle celebrazioni della Giornata della Memoria, incontra, presso il Teatro San Giovanni Bosco e l'Odeon, le giovani scolaresche della città per mettere in scena l'oratorio in 11 canti dello scrittore berlinese d'origine ebraica, immigrato in Inghilterra durante l'ascesa del nazismo. “L'istruttoria” (“Die Ermittlung” in lingua tedesca) fu composta in seguito alla partecipazione di Weiss alle udienze del processo di Francoforte sul Meno, in cui paradossalmente molti aguzzini figuravano non come imputati, ma quali semplici 'testimoni' al fianco delle loro stesse vittime. Ne nasce un lucido atto di accusa, che svela la miseria morale di una sedicente razza pura e denuncia gli accordi tra governo e industrie tedesche nell'elaborazione di una 'Soluzione finale' in cui determinante appare la sete di danaro. Nell'allestimento, al cospetto del giudice (il sempre bravo Corrado La Grasta), incarnazione di una giustizia imparziale, quasi asettica nell'inesausta tensione all'accertamento della verità, si alternano nove sopravvissuti tra gli Haftlinge (i deportati) e rievocano le memorie spesso rimosse di un lento e doloroso martirio, pronunciando un dignitoso j'accuse all'indirizzo dei vari Mulka, Kaduk, Boger, Stark. Gli aguzzini si rifugiano nel giustificazionismo più vieto (“Gli ordini sono ordini”), sminuiscono le proprie colpe, inveiscono contro i testimoni, ne contestano la veridicità. A fare da sfondo (le scenografie, essenziali ma di grande efficacia, sono state realizzate da Antonietta Soriano) la parete nera, cupo scenario delle fucilazioni, muro del pianto su cui gli Haftlinge, col gesso, segnano l'inizio di ogni nuovo canto. E ci introducono nell'ennesimo girone d'inferno. L'allestimento regala attimi di tensione pura, come nel canto dei Bunkerblock, canili dove i detenuti, in preda agli spasmi della fame e della sete, finivano col perdere i segni distintivi dell'umanità, cedendo al cannibalismo. Efficace la regia di Vito d'Ingeo, che ci catapulta in un'aula tribunalizia, nell'avvicendarsi apparentemente incolore (effetto raggiunto anche grazie alla voluta affettazione della dizione) dei testimoni. Bravi gli interpreti: accanto alla perizia interpretativa di La Grasta, una conferma ad alti livelli, colpiscono l'intensità di Andrea La Forgia, l'espressività ferita di Paola Brattoli, l'abile trasformismo di Elio Colasanto, l'energia di Silvia Mastropasqua, il freddo cinismo di alcune caratterizzazioni di Michele Ortiz. I costumi sono stati curati da Eugenia Spaccavento, impeccabile anche sotto il profilo organizzativo. Ci lascia perplessi il fatto che all'attento e rispettoso silenzio della maggior parte degli studenti abbia fatto da contraltare l'inopportuno rumoreggiare di non pochi idioti, anche in scene d'estrema drammaticità. Mi sfugge come dei giovani possano ridere ascoltando la descrizione dell'uccisione di loro coetanei con iniezioni al fenolo. Esistono drammi così evidenti che anche una mediocre sensibilità dovrebbe, col minimo sforzo, percepirne la gravità e averne rispetto. O forse anche queste sono solo parole al vento.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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