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Salvemini fra Mazzini e Cattaneo in una lettera a Rossi del ’22
15 maggio 2022

F ra gli studi di Gaetano Salvemini fi- gurano quelli su due grandi perso- nalità del Risorgimento: Mazzini e Cattaneo. La monografia su Mazzi- ni era arrivata alla terza edizione nel 1920 con la Società Anonima Editrice “La Voce”, mentre il florilegio Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, arricchito da una nutrita e illuminante introduzione salveminiana, uscì per la prima volta nel 1922 presso i Fratelli Treves Editori. Del pensiero di Giuseppe Mazzini, lo storico sottolineava, insieme alla “coscienza del dovere”, l’indispensabile funzione storica: Mazzini fu il grande precursore dell’Unità d’Italia, perché senza di lui, che costrinse la monarchia sabauda, per timore della re- pubblica, a risolvere la questione dell’indi- pendenza dall’Austria, non si sarebbe giunti all’unificazione nazionale. Delle idealità di Carlo Cattaneo, del suo positivismo stori- cistico, Salvemini rimarcava appassionata- mente il valore del federalismo, col tesoro delle autonomie e libertà amministrative lo- cali, fondamentale per rafforzare la demo- crazia italiana dopo il superamento della fase iniziale di rigido accentramento neces- saria a consolidare la fragile unità nazionale. Nel marzo del ’22, una lettera di Ernesto Rossi, che lavorava in Basilicata per l’ANI- MI (Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno), trovò ammalato a Firenze il quarantanovenne Salvemini. Ripresosi dai malanni, lo storico il 3 aprile 1922 poté scrivere la sua lettera di replica, con questo esordio: «Carissimo Rossi, ho tardato a risponderti, perché sono stato a letto per una settimana con dei reumatismi. Accidenti alla vecchiaia! Riceverai il Cattaneo. Io mi sono arenato a quel mio autore: tutto ciò che ne esce fuori [da Cattaneo], non lo capisco più». Cattaneo, scoperto da Salvemini nell’in- verno 1898-99, mentre insegnava al Li- ceo di Lodi, era rimasto il suo unico grande Maestro. Dal federalista milanese lo stori- co prese in prestito il motto «Ivi alberga il mio spirito», che Cattaneo riferiva ai sette volumi del “Politecnico” usciti fra il 1839 e il 1844 e che Salvemini associava al setti- manale politico “L’Unità” da lui diretto dal 1911 al 1920. Nella propria missiva, Rossi aveva rileva- to nella personalità salveminiana un cer- to dissidio tra il comportamento affettivo e la struttura mentale di critico. Salvemini re- plicava in termini di ironica autoaccettazio- ne: «Quanto al contrasto, che tu osservi fra la mia azione di sentimentale e la mia mentalità di critico, che cosa vuoi che ti dica? Lo noto anch’io. Qualche volta mi turba; tal- volta mi irrita; qualche volta mi fa anche sorridere. Evidentemente, non sono perfet- tamente omogeneo e perfettamente equili- brato. Bisogna che io mi prenda come sono, e che tu mi prenda come sono». Lo storico passava poi a stabilire una cor- relazione tra la formazione pregressa di ogni individuo e il valore dominante della visio- ne esistenziale scaturitane, da cui derivano i comportamenti pragmatici: «In fondo, cia- scuno di noi è stato costruito dal suo passa- to, in modo da farsi un ideale della vita: sarà magari l’ideale di fare quattrini, di truffare il prossimo, di diventare sottosegretario di Stato; ma è certo che ognuno di noi ha più o meno implicita, una determinata concezione della vita. In questa concezione della vita c’è un elemento conoscitivo: il mondo va in una data direzione; e c’è un elemento pratico: tu devi andare in quella certa direzione. Così, per esempio, il sottosegretario di Stato dice: 1° il mondo è formato di coglioni e di chi se lo sa prendere; 2° tu sfrutta i coglioni e sappi prendere il mondo. Mazzini diceva: 1° il mondo è condotto da Dio verso la solidarietà universale; 2° tu devi lavorare per la solidarietà universale». Andando oltre, Salvemini stabiliva un legame tra la concezione individuale del mondo e la prassi personale conseguente: «Di regola la teoria conoscitiva coincide con la teoria attiva. Ognuno di noi crede che il mondo va per la via, per cui ciascuno di noi crede di dover andare. Ed è necessaria questa coincidenza, o meglio la fede in questa coincidenza, perché rimanga la volontà di agire. Quando questa fede manca, si ha la disperazione di Leopardi: cioè il contrasto fra quel che si sentirebbe di dover fare, e il sentimento della inutilità di qua- lunque azione di fronte alla realtà che va per un’altra strada». Continuando nel suo procedimento di- dattico, distinguendo tra visione nazio- nalistica e visione democratica, lo storico aggiungeva: «È assai probabile che in cia- scuno di noi la spinta pratica non sia punto determinata dalla teoria conoscitiva; ma è essa che agisce sulla nostra conoscenza, e ci fa vedere il mondo camminare per la via per cui noi camminiamo. Così i nazionalisti vedono il mondo andare verso lotte sempre più feroci di potenza; noi, vili democratici, lo vediamo andare verso un equilibrio di solidarietà sempre più vasto. E gli uni e gli altri vediamo nella storia la prevalenza di certe tendenze di fronte ad altre. E la storia, poveretta, lascia fare». Più scarsa è la conoscenza degli eventi passati, più alto è il tasso di perentorietà nelle affermazioni politiche tendenziose o nelle interpretazioni storiche e viceversa. È quanto spiega Salvemini al suo ami- co e discepolo Rossi: «E meno conosciamo la storia, più le facciamo dire quel che vogliamo noi. Mazzini si trovava in condi- zioni privilegiate, da questo punto di vista; perché gli studi storici al suo tempo erano meno avanzati che oggi; e lui non era al cor- rente neanche di quel che gli storici avevano conquistato (fra lui e Cattaneo c’è un abis- so di dottrina): perciò metteva nella storia tutto quel che premeva a lui, e solamente a lui. Molti nazionalisti nostri contemporanei sono nelle stesse condizioni di coltura stori- ca di Mazzini». Salvemini non faceva nomi, ma si tratta- va soprattutto di nazionalisti dalmatomani, come Alessandro Dudan, Giovanni Ron- cagli, Attilio Tamàro, Antonio Fradeletto, Leonardo Azzarita, Tommaso Sillani e An- tonio Cippico (per i quali mi permetto di rinviare al mio articolo Salvemini “rinuncia- tario” ed “ebreo”, apparso in “Quindici” del 15 giugno 2019). Da quanti adattavano la storia al proprio pensiero o tornaconto, Salvemini prende- va le distanze, cogliendo il destro da un bra- no menzionato epistolarmente da Rossi e chiedendo comprensione per le situazioni di cautela e di dubbio in àmbito storiografico: «Io, per mia disgrazia, faccio il mestiere di storico. Motivo per cui non mi sento la capacità di essere affermativo come tanti altri. Nel passo, che tu hai citato, ci ho messo un probabilmente. Così ho salvato il mio onore di storico. Tu tieni conto del mio probabil- mente; abbi pietà delle mie debolezze; e vo- glimi bene lo stesso». L’ultima parte della lettera salveminiana faceva riferimento alla legge n. 1177 del 20 agosto 1921, entrata in vigore il 7 settembre successivo, che recava provvedimenti contro la disoccupazione. Rossi aveva lanciato la proposta di saggiare quella legge per rile- varne i limiti e Salvemini aveva colto la palla al balzo per incoraggiare il lavoro del gio- vane amico per l’ANIMI con un interven- to giornalistico mirato: «Ottima idea quella di sperimentare la legge sulla disoccupazio- ne, facendone così risaltare i difetti. Ma perché non fai un articolo da pubblicare su una rivista o su un giornale sui difetti della legge, sui trucchi a cui dà luogo, sui modi di correggerla, sulla possibilità di correggerla? Ecco uno di quei lavori che l’Associazione del Mezzogiorno deve promuovere». Era l’ennesimo frutto del concretismo salveminiano, tutto risolto nel caldo invito a studiare i problemi reali e a cercarne una so- luzione efficace.

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