Ricordo del pittore Pantaleo Mezzina (1929-2020)
È morto nel gennaio 2020, all’età di novant’anni, il pittore Pantaleo Mezzina, nato a Molfetta il 29 marzo 1929. Una figura gentile, rappresentativa di una Molfetta d’altri tempi. Un uomo schivo della ribalta e abituato a lavorare nel silenzio, in anni di docenza presso le scuole medie del territorio (in particolare la “Giaquinto”, in cui ha insegnato dal 1973 al 1990) e di costante attività artistica. Recensito nella pubblicazione di De Bono e Mafrice sulle Quotazioni dei maestri italiani dell’acquerello, era stato definito “abile interprete di un idealismo lirico”, foriero di un “chiarismo melodioso pugliese”, “saturo d’un raggismo caldo e passionale”. Numerose le sue partecipazioni a mostre di livello nazionale e internazionale; nel 1983 aveva esposto al “Salon des Nations” di Parigi; nel 1986 alla Collettiva “Maestri d’Arte” nel centro storico fiorentino. Aveva inoltre ottenuto premi importanti come il Raffaello d’oro a Milano, nel 1983, il titolo di accademico dell’Accademia d’Italia (1983) e il Premio FIAF a Roma (1980). Nel gennaio 2015 aveva donato al Museo Diocesano di Molfetta 22 sue opere tra disegni, acquerelli e dipinti; l’inaugurazione era stata l’occasione per la presentazione di un catalogo sulle opere di Mezzina. La sua attività ha trovato una felice espressione tanto nel disegno, quanto, come già si anticipava, nell’acquerello. Quest’ultimo gli ha consentito di declinare al meglio la morbidezza della sua visione e di dar corpo alle immagini del reale che uno “sguardo azzurrino” gli restituiva. Tra i suoi disegni ci aveva particolarmente colpito la serie dei cappotti e dei grembiuli dei suoi allievi, ispirata da momenti di quiete nella sempre più frenetica vita scolastica. Non è solo questione di colorismo o di accostamenti di toni ora tenui ora caldi ora squillanti. Si percepivano l’affetto dell’educatore e lo sguardo dell’adulto innamorato di quell’età-soglia che tutti desideriamo superare e al contempo finiamo col rimpiangere. Approdiamo così alla pittura di still life, che Mezzina aveva coltivato con acume e sensibilità, tra calde fantasie gastronomiche ispirate dalle appetitose aragoste e poi ancora brocche, lumi e mestoli meticolosamente e scenograficamente disposti a suggerire un desiderio di razionalizzazione e di presa sul reale, che però finisce sempre e inevitabilmente con lo sfumare nel mistero. Felice a tal proposito anche l’accostamento della Maschera e la rosa: rinvio al Carnevale, alla stagione in cui licet insanire, ma al contempo alla consapevolezza che gli istanti di leggerezza e gaiezza durano l’effimero tempo di una rosa, da sempre emblema di beltà e caducità. Per non parlare poi degli ulteriori risvolti suggeriti dal motivo del mascheramento, rinvio possibile anche all’incomunicabilità tra individui sempre più solitari. Una pensosa solitudine sembra, infatti, connotare la rappresentazione che Mezzina fa della Pudicizia (1984), in un intimismo che accomuna i suoi nudi, in parte anche quello di un efebo (1987), in cui però emerge un gusto tutto classicista della rappresentazione del bello. Intimistica è anche la sua lettura, vicina, nelle forme, allo stile del movimento Novecento, della tentazione di S. Francesco. Il tema era stato declinato in vari modi; ci piace ricordare, per esempio, il caso, nel Seicento, di Simon Vouet, che in San Lorenzo in Lucina aveva dipinto, citando Sgarbi, un “inferno dei sensi”, con un’‘atletico’ “Francesco nudo su braci di carbone” e una figura femminile estremamente provocante. Nel caso della tempera di Mezzina (1983), ognuna delle tre figure è una monade; gli sguardi non si incrociano nemmeno. Il santo sembra osservare un punto al di là dello spazio della tela, la sua meta ideale; pur nello sfioramento dei gomiti, la piramide abbozzata dalle tre figure non si compone in unità. L’atmosfera circostante è vaporosa, immateriale; la tentazione è nello spirito, ma sta per esser vinta. Chiudiamo con le rappresentazioni in acquerello della città di Molfetta, in cui Gaetano Mongelli ravvisava lucidamente il cesello di un “piccolo pianeta di arcadia ed elegia ricamato coi fili dorati di una luce meridionale”. L’Arco della Chiesa Vecchia, l’Entica, il Villaggio Belgiovine, il molo e (nei disegni) il Chiostro Madonna dei Martiri, l’Ospedaletto dei Crociati si compongono come luoghi di incanto. Luci che illuminano campanili, verdi intrichi che adornano facciate di abitazioni, ombre che diventano ipostasi di un silenzio amato, desiderato. Perché solo in assenza della figura umana gli spazi possono trasfigurarsi e diventare altro, ciò che il cuore vuole che siano. Solo nel silenzio o in quei particolari momenti epifanici, in cui le voci intorno si fanno lontananti e si entra in comunione con il Mistero. © Riproduzione riservata