Recupero Password
Racconti intorno al braciere
15 dicembre 2010

Prima ancora che nelle abitazioni si facesse uso di stufe e termosifoni, si usava riscaldarsi con il calore emanato dal braciere (la frascéiere). I nostri avi saggiamente dicevano: “U fueche de vierne te rescàlde cchiù de la megghièiere” (Il fuoco d’inverno ti riscalda più della moglie). Si trattava di un incavo di rame a forma cilindrica con un orlo su cui erano ancorati due manici. All’interno si poneva la carbonella (la carvenédde) che veniva accesa con un batuff olo imbevuto di olio, mescolando di tanto in tanto la brace con un palettino di ferro (u palettùdde). Si preferiva la carbonella di ulivo perché la sua brace durava più a lungo. Il braciere era sostenuto da una ruota di legno a forma di corona circolare (u trepèiete), in modo da consentire alle persone, che sedevano intorno, di appoggiare i loro piedi. Per attenuare l’odore sgradevole della combustione della carbonella, su di essa si lasciava bruciare qualche buccia di mandarino. Spesso sotto le ceneri roventi si abbrustolivano fave e ceci che scricchiolavano tra i denti, appena cotti. Non mancavano gli imprevisti causati dalla vivacità o irrequietezza dei bambini, i quali non di rado subivano scottature più o meno profonde alle mani, al sedere o agli arti. ”Re stozzere attèieche ca né stè mè fèrme, disgrazziàte, vè nnénz é drèiete comme l’acque du mére”(Maledizione a te che non stai mai fermo, disgraziato, vai avanti e indietro comme l’acqua del mare), inveiva la mamma contro il fi glio insoff erente per le scottature accidentalmente subite. Quando la brace cominciava a spegnersi, era giunto il momento di chiudere la giornata e di andare a letto. Prima di coricarsi, gli antichi così recitavano: “L’òere de scì o lìette è arrevàte, a la Médonne me so raccheménnéte, sacce la chelcuàte, ma nen’ zacce l’alzàte”. (L’ora di andare a letto è arrivata, alla Madonna mi sono raccomandato, so quando mi corico ma non so se mi sveglio). E che dire delle salzìzze a re gghémme? (salsicce alle gambe?). Erano chiazze rosse e bianche, simili a quelle di una salsiccia, che il calore del braciere lasciava sui polpacci delle gambe delle donne, che si accostavano eccessivamente allo stesso per riscaldarsi. Infatti, in quei tempi erano rarissime le donne che indossavano pantaloni. Inoltre, non di rado capitava di vedere gente che soff riva di “geloni” alle mani, ossia di infi ammazione del tessuto superfi ciale delle dita dovuta al gelo della stagione invernale. Quanta giovinezza trascorsa al “calore” dei ricordi e degli aff etti familiari! Quanta testimonianza di un passato semplice ma duro! Quanti racconti abbiamo ascoltato intorno a quel braciere! Ne cito alcuni, tramandati oralmente dai nostri avi, e poi registrati dallo storico pugliese Saverio La Sorsa (1877-1970). U pùerche Un bimbo, lacero e scalzo, andò a iscriversi alla prima elementare. La maestra gli chiese: “Come ti chiami?”. Il bimbo rispose: “Geséppe”. “E tua madre?”, “Mariéndoneie”, “E tuo padre?” “Tatà”, rispose il fanciullo. “Voglio sapere il nome proprio”, ribadì la maestra. Al che il bimbo si chiuse in un mutismo. Allora la maestra, spazientita: “Voglio saper il nome del tuo genitore, è mai possibile che tu non lo sappia? E tua madre come lo chiama?”. Subito il bimbo rispose: “U chiéme u pùerche”. La maestra scoppiò in una sonora risata. L’avvocàte Póche Una donna di Molfetta vecchia doveva farsi difendere da un avvocato contro una vicina di casa che l’aveva apostrofata con il termine dispregiativo “putténe”. Le comari l’avevano consigliata di interpellare l’avvocato Picca che aveva una buona fama forense, indicandole pressappoco l’ubicazione del suo studio. La donna, giunta nelle vicinanze del luogo che le era stato indicato, entrò nella bottega di un calzolaio, per sapere esattamente dove si trovasse lo studio dell’avvocato Póche. Il calzolaio le rispose di non aver mai sentito pronunciare un tale nome nei dintorni: “Conosco un avvocato che si chiama Picca”, aggiunse l’artigiano. “Si…si… rispose la donna - mi hanno detto proprio Picca”. “E perché l’avete chiamato Póche?”. Replicò la donna: “Segnerì, a la melfettèiese se disce “Pìcche”, ma in’ italiéne se dìsce Póche. Ci aie decèieve Pìcche, cur s’offèndèieve!”. Ind’alla tèrre Un giovane molfettese si recò a Barletta per passare la visita militare. Il capitano medico gli domandò: “Dove abiti?”. Rispose il giovane: “Ind’alla tèrre” “Dove?”, ribatté il capitano. E il primo: “Cé ssì sùrde? Tègghie dìtte ind’alla tèrre”. Il capitano, credendosi burlato, gli dette un ceff one. Ma uno dei presenti gli spiegò che con il sostantivo “tèrre” i molfettesi intendono la città vecchia, sicché il giovane aveva detto la verità. U viàgge de Bèllefrònte Quando una persona non ha assolto come doveva un incarico ricevuto, si dice “Ciucce sì sciàute è ciucce sì venéute” ovvero “si ff atte u viagge de Bèllefrònte”. Chi era “Bèllefrònte”?. Un mercante, raggiunta l’età della pensione, lasciò al fi glio, di nome Bellafronte, il suo mestiere che aveva esercitato per lunghi anni. Un giorno Bellafronte si recò in Iugoslavia con la propria imbarcazione, per acquistare e caricare a bordo la mercanzia che gli aveva ordinato il padre. Giunto a destinazione, il giovane marinaio vide sulla spiaggia bellissime ragazze slave, pronte a soddisfare qualsiasi desiderio erotico dei marinai. Bellafronte si innamorò di una di loro e altrettanto fecero i suoi compagni di bordo con le altre ragazze. Consumò nelle gozzoviglie e nei piaceri sessuali tutto il denaro ricevuto dal padre, circa tremila scudi, il quale rimase allibito nel vedere la barca, al suo rientro, non carica di merce bensì di belle donne. “Add’ò stònne le sólte ccà te sò ddàte? (Dove sono i soldi che ti ho dato?). “Papà - rispose il fi glio - il mercante ha pagato di notte ed è fallito”. Ed il padre: “Figghie de mél’a cóste è de méle lìette, de mérchénzàie de fémmene t’indéllìette” (Figlio di cattiva donna e di cattivo letto, di mercanzie di donne te ne intendi). Ma intorno al braciere si ascoltavano pure episodi drammatici di un vissuto infelice: la guerra, i bombardamenti, la sopravvivenza, il duro lavoro, la miseria, la fame, la depravazione umana, tutti ricordi di un passato che rimangono indelebili nella memoria di chi li ha ascoltati perché, come ha scritto J.L.Borges: “la memoria è la nostra coerenza, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Senza il ricordo non siamo nulla”.

Autore: Cosmo Tridente
Nominativo  
Email  
Messaggio  
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2023
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet