Pregevole edizione della “Bottega del caffè” di Goldoni
Il “Laboratorio di Arti sceniche” dell’Istituto Alberghiero di Molfetta, nell’ambito della XVI edizione della Giornata dell’Arte e della Creatività, ha realizzato un’efficace e fresca rappresentazione della “Bottega del caffè”, classico dell’arte goldoniana. La scelta di una commedia d’ambiente, felice anche nella coloritura di nitidi caratteri (quale quello di don Marzio), consente di focalizzare l’attenzione sulla varia umanità che affolla una piazzetta veneziana e ne irrora la vitalità. Goldoni ne approfittava per introdurre problematiche che sfortunatamente appaiono tuttora attuali: l’incombere del demone del gioco, che può proiettare esistenze irrequiete in un vortice di trasgressioni e menzogne; il venticello della maldicenza, che spesso spira attraverso figure non infide all’apparenza; la costante presenza, nelle comunità umane, di falchi dall’aria confidente, come il truffaldino Pandolfo, pronto a profittare dell’umana dabbenaggine. Goldoni mostra i lati oscuri della natura dell’uomo, ma finisce col rassicurare lo spettatore: finché esisteranno galantuomini come il bottegaio Ridolfo, continuamente pronto a sacrificarsi per gli altri e a mediare al fine di appianare i contrasti, sarà possibile ristabilire l’equilibrio, anche in situazioni apparentemente compromesse. Il lieto fine sarà tanto più probabile, quanto più la comunità si rivelerà forte: emerge così la coralità dell’operosa Venezia, che, nel finale, stigmatizza il maldicente don Marzio e lo isola dal consesso cittadino, inducendolo a partire. Lo stesso seminatore di discordie, tra l’altro forestiero (nota campanilistica del Goldoni?), non potrà, apprestandosi a lasciare la città, non profondersi in un elogio della Serenissima, dal significato non privo di ambiguità. Non è un caso che la messinscena si apra con un minuetto (l’adattamento musicale è stato curato dal prof. Antonio Allegretta, le coreografie dalla docente Daniela Logrieco), omaggio alla cultura lagunare, per poi introdurre la nota straniante, con la musica latinoamericana e la salsa, emblema di quella “vita maleducata” cui don Eugenio (Simone Lobascio) inneggerà successivamente. Un altro elemento che, infatti , caratterizza l’allestimento è la contaminazione tra classico e moderno, con l’innesto, in chiave di commedia musicale, di esibizioni canore che spaziano da Rossi a Gazzé. Questo per avvicinare i giovani al testo settecentesco, ma anche per sottolineare, al contempo, l’universalità del messaggio di quest’ultimo. La scenografia, curata, accanto ai costumi, dalla docente Antonietta Travaglini, riproduce, attraverso fondali dipinti, i diversi ambienti; i costumi appaiono fedeli all’epoca d’ambientazione, con note di modernità. Il testo è recitato sostanzialmente nelle battute originali, con un apprezzabile lavoro sulla dizione dei giovanissimi interpreti; i curatori hanno operato un valida selezione di scene e riduzione dei dialoghi, a vantaggio della mise en scène, resa più agile e godibile. Tutti gli attori, molti impegnati anche come danzatori, hanno manifestato buona attitudine all’arte scenica e si sono cimentati con i personaggi assegnati con entusiasmo e passionalità. Ne menzioneremo i nomi: Ridolfo: Alessandro Fucci; Don Marzio: Antonio Matera; Eugenio: Simone Lobascio; Flaminio: Fabio Leone; Placida: Luisa Lacerenza; Vittoria: Paola De Pinto; Lisaura: Noemi Bellifemine; Pandolfo: Sabino Maldera; Trappola: Emanuella Salvemini; Capitano delle guardie: Domenico Matera; Garzone della bottega: Doriana Mennea; Garzone del parrucchiere: Manuela Troia; Garzone della locanda: Michela Dascoli; Garzone della locanda: Carmen Rana (tra i ballerini citeremo Alessio Devincenzo). Tra tutti ci piace segnalare, in particolar modo, il protagonista Fucci, un don Ridolfo naturale, padrone della scena, sempre misurato nell’estrinsecazione delle emozioni. Bravo anche il suo contraltare, l’anima nera della comunità, don Marzio: Antonio Matera gli dona una vena di canagliesca simpatia, che rende credibili le confidenze che gli vengono rivolte, e una nota di leggerezza, che desta il sorriso e spiega come, più per superficialità e attitudine alla chiacchiera senza costrutto che per reale cattiveria, si possa arrivare a seminare zizzania e danneggiare l’altro. Fresca e spigliata anche Emanuella Salvemini, che si cimenta con grazia e disinvoltura con Trappola/Arlecchino, personaggio che si radica nella più antica humus del nostro teatro. Un plauso a tutti i docenti che hanno curato la regia, i professori Adelaide Altamura, Teresa De Leo, Caterina Di Molfetta, Carla Calò, Rosita Napolitano, Annamaria Russo, artefici, con scelte accurate e cura encomiabile, della costruzione di un allestimento degno di apprezzamento.
Autore: Gianni Antonio Palumbo