Pollice verde
Il racconto
Torniamo a proporre un racconto nelle pagine di Quindici affidandoci a una firma che già è apparsa e che ha suscitato commenti positivi. Marisa Carabellese, artista a tutto tondo in quanto principalmente pittrice, ci propone una breve e dolcissima storia nella quale la magia della natura si confonde con la magia di un evento fantastico e soave al contempo. Con l'abilità di scrittrice affermata, la Carabellese ci affascina con questo racconto che ci riconcilia con la buona lettura e ci rammenta che siamo parte del mondo, non suoi nemici. (d.a.) Uno sciame di farfalle bianche ha continuato a volarmi intorno per tutta la mattinata. Le chiamano cavolaie, mi son sempre chiesta perché un nome così prosaico per creature così aristocratiche, (che anche io sia un cavolo?) ma poi penso che è un nome che sa di orto, di cose semplici e buone, di casa. Ma sì, mi piace. Mi è saltata su anche una cavalletta, prima avrei urlato, mi hanno sempre terrorizzata, ora – a parte che mi sarebbe difficile urlare – mi ha fatto sorridere. Fra poco comincerà a diventare buio, – l' ho sempre amato il crepuscolo, mi ha sempre dato una serenità inesprimibile – e col buio torneranno, fruscii, sibili, come un lieve alitare di vento…ora posso comprenderli, comunichiamo. Certo è un linguaggio che nessun altro potrebbe intendere, (chissà, forse don Savino, il prete della Chiesa sulla collina, che mi hanno detto che vi è andato molto vicino) ed è meglio così. Se ne sospettassero l'esistenza li cercherebbero, devasterebbero il bosco e, non ci voglio pensare, chissà cosa sarebbero capaci di fargli. Non li ho mai visti, ma continuo a raccomandar loro di non farsi sentire. Eccoli, stanno arrivando. La chiamavano “Pollice verde”, ma senza cattiveria, per quella abitudine nei piccoli paesi, di dare un soprannome a chi avesse una qualche particolarità o di stigmatizzare un comportamento inusuale. La sua di particolarità, se si poteva definirla così, era quella di non riuscire a far crescere un solo fiore sul suo balconcino, o meglio ne cresceva e proliferava solo uno, il Phyllocactus, quello che volgarmente si chiama Lingua della suocera. Capitava proprio a lei che la suocera non la aveva né l'avrebbe mai avuta. L'unica pianta in grado di mettere fiori era quella, e ne faceva di belli, ma non contava. Gli altri balconi sulla piazza del paese erano pieni di gerani, bellissimi, grandi, multicolori, in piena fioritura per quasi tutto l'anno, dato il clima favorevole del paese ai piedi della collina. Le donne che ne avevano cura, fiere dei loro balconi fioriti, guardavano con commiserazione – o così a lei sembrava – il suo balconcino spoglio, salvo che per la fioritura temporanea del Phyllocactus che però, appunto, “non contava”. Lei viveva di piccoli lavori saltuari, gentile con tutti, ma senza invogliare alla confidenza. Nessuno però sapeva delle sue notti. Quando tutto il paese era immerso nel sonno saliva al buio verso il boschetto della Chiesa sulla collina. Se anche qualcuno l'avesse vista, nessuno avrebbe pensato ad una “visita” a don Savino, intanto perché lui era al di sopra di ogni sospetto, poi perché il suo aspetto non era di quelli che potessero facilmente indurre in tentazione, e poi perché l'idea delle mani di don Savino, l'ex pugile, grandi come badili, avrebbero troncato sul nascere ogni pettegolezzo. Si inerpicava sulla collina da un viottolo non frequentato, ed era come una iniziazione, giungeva al boschetto, si sdraiava sull'erba, e ascoltava. Stanotte la luna è velata, scompare e riappare fra nuvole bianche, leggere. Ci sono tante varietà di alberi nel boschetto, molto più di quante la gente immagini. Ormai le conosco tutte, distinguo ogni albero, ne conosco la voce, ogni specie ha la sua voce, diversa da tutte le altre. Il vento li aiuta a muoversi, a comunicare, a cantare. Io non ho ancora osato parlare con qualcuno di loro, mi sembrerebbe poco riguardoso, sono ancora un'estranea. Poi ci sono le voci della notte: non mi sento mai sola né in pericolo. La sua vita era stata difficile, lo si vedeva dai segni profondi sul suo volto, ma lei non dava mai modo agli altri di osservarla bene, rifuggiva qualsiasi contatto che potesse indurli a prendersi confidenza. Tentava di coltivare gerani sul suo balconcino, ma l'unica pianta che proliferava era il Phyllocactus, ma ormai non le importava più. Non c'era la luna, le stelle brillavano vivide, nessuno nel paese ai piedi della collina che pur aveva una scarsa illuminazione poteva vederle così. Arrivò al boschetto, si stese sull'erba come tante altre volte. Tendeva l'orecchio al mormorio degli alberi, cominciava a sentire le voci della notte, era tutt'uno con gli alberi, i cespugli, le piante spontanee, era una di loro, si levò dritta, e così, mentre sentiva le piante dei suoi piedi mettere radici che penetravano nel sentiero soffice e le braccia, i capelli, il tronco coprirsi di rami e di foglie e di minuscoli fiorellini bianchi, rise di gioia.
Autore: Marisa Carabellese