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Poesia e cultura d’oggi
15 settembre 2022

Si tratta del componimento che apre il mio nuovo libro di poesia “Nata cigno” (Cacucci Editore, Bari 2022). V’è compendiata la mia poetica di sempre e aveva quindi visto giusto Mario Luzi negli anni ’90 quando al Premio Montale mi apostrofò: “A lei è data la poesia”. La poesia non si può insegnare perché è una scienza a sé stante che si può studiare, si può imparare, conoscere ma non insegnare. E’ una forma di conoscenza e di ricerca ontologia e filologica. Ricerca, magari attraverso vivisezioni metaforiche, di sé e dell’inconscio, delle cose intorno e degli altri da sé. Oggi rimango costernata dinanzi alla alfabetizzazione di massa della poesia, alla sua massificazione che ne ha decretato lo svili- mento. Vanno perciò stigmatizzati i mentori che nutrono l’arroganza e la presunzione di poter insegnare a scrivere poesia. Ed invece il fare poesia non deve ritenersi molto agevole, a meno che non si sia dotati di cultura vera e non della pseudo–cultura di oggi, nella mag- gior parte rabberciata e raffazzonata magari su internet (o peggio tramite social), cultu- ra non sempre veritiera o realmente approfondita, ma relegata a meri nozionismi privi di originalità, di critica e di pensiero. Una cultura fatta su misura della società odierna, una società “mordi e fuggi”, dove tutto fluisce rapidamente e poco resta davvero. Di tale cultura si alimentano alcuni pseudo-poeti o anche pseudo-scrittori di oggi. Sì perché anche la scrittura in genere è sacra e deve meritare rispetto. Oggi chiunque si sente in diritto di scrivere un libro pur non avendo magari strumenti linguistici idonei. E non è così. Lo si può, se sei munito di quella cultura stratificata negli anni, acquisita sui libri con uno studio annoso. Non dico che si debba ritenere ancor oggi la poesia (e per me sarebbe augurabile) l’Arte per eccellenza, il Sublime, l’Assoluto come per i greci e per i latini, ma ritengo che si debba nutrire una sorta di soggezione di fronte ad essa. Il termine “poesia” deriva dal verbo greco “poiein” che significa il fare, il creare per eccellenza. Quindi nessuno può arrogarsi il diritto di poterla elargire come fosse una comune dottrina o, peggio, una materia scolastica. La poesia deve cercarci, deve trovaci mentre si è motivati da necessità, da un’urgenza originaria che si arresta solo nei versi, convogliando l’afflato in un linguaggio corretto, il meno possibile discorsivo ma autentico, in cui potersi ritrovare. Non abbiamo bisogno di mediocri versificatori che ci hanno additato all’Azienza Culturale in genere come la branca letteraria di minor conto. Si è detto che la poesia è ricerca, quindi una ricerca personale che non si può delegare ad altri, ma si deve sentire ed operare. Ricerca dell’essere del mondo e del mon- do dell’essere, delle ragioni della vita e del- la morte, di quelle dell’amore e del dolore, e insieme ingegneria linguistica del proprio cervello. Il poeta, come diceva Saba, è co- lui che interroga la Verità e nel mio ultimo libro già citato “Nata cigno” affronto varie volte il tema della Verità. La poesia deve registrare folgorazioni, delusive o il- lusive che siano, che entrano dalle cose in noi o escono da noi sulle cose, tradotte in parole ed esplicitate in visioni. Quindi la natura e la società restano gli oggetti primari del poetare secondo il personale sentire. La poesia non si può insegnare perché, come ha ben intuito Roberto Pazzi, si atteggia a “movimento interiore”, “ragione oscura” di scrivere che si chiarisce dopo o durante la scrittura, mai prima. Resta sempre valido ed attuale ciò che ebbe a dire della poesia Montale, cioè che è un’arte inguaribilmente semantica e non il vuoto arzigogolo costruito a tavolino, come la si vuole ridurre. Il poetare deve restare testimonianza storica, memoria collettiva e messaggio sociale dettato magari da sdegno civile. Inoltre nella vera poesia non deve mancare il culto della filologia, una coltivazione propria ed appropriata della parola, una peculiarità denotativa e connotativa della personale poesia. Ed essa non può essere inculcata, ma scaturisce da un linguaggio personale e personalizzato, un poeta è il suo linguaggio. Non dobbiamo rassegnarci alla mercificazione della poesia, che ha guadagnato in diffusione ed effusione ma ha perduto in valenza e pregnanza, senza quell’ “aura” di cui parlava Benjamin, quell’illumi- nazione intrinseca che non è di tutti. Per me resta sempre valido quell’ “os rotundum” di Orazio, quell’architettura rotonda e armoni- ca del periodare poetico. A questo punto vorrei concludere con l’au- spicio di Montale: “Si permetta alla poesia di tornare ancora a costituire il decoro e il vanto del nostro Paese”. Illusioni di un’ “antica”. © Riproduzione riservata

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