Le opere di Pino Spadavecchia a Riempimenti nella Sala dei Templari di Molfetta
MOLFETTA - Qualche giorno fa, in occasione della mostra “Riempimenti”, a Molfetta, ho ritrovato le opere stimolanti di un artista, Pino Spadavecchia, che da tempo non incontravo in una esposizione locale. Conosco da tempo le opere di Pino, la sua inesausta ricerca fra le maglie dell’esistenza, ma imbattersi nelle sue opere è ogni volta una sfida. Ad essere rimessi in gioco siamo noi stessi, con il nostro fardello di identità che immancabilmente fa da filtro rispetto a tutte le esperienze, le decisioni e le dissimulazioni.
Continuo a seguire i lavori di Pino su Premio Celeste, che può essere una piattaforma web interessante per chi volesse avvicinarsi all’arte e alle sue opere. Il portale ripercorre i momenti più importanti del suo lavoro di artista.
In occasione della mostra a Molfetta, ho avuto modo di ritrovare i motivi fondamentali della sua elaborazione artistica. Le opere dell’artista sono uno strappo nella tela, che ci immette in maniera prepotente nei tranelli della temporalità. E’ un percorso non lineare, fatto di resistenze e ritrazioni, quello che ci si apre E’ un’ombra tormentata, quella che accompagna i balli genuini del Mediterraneo, costituendone la cifra irrinunciabile. C’è una incancellabile zona d’ombra ai confini della ragione, come emerge in “Ballo mediterraneo” (nella foto). Non si tratta di un accidente casuale, ma della nostra connaturata finitezza, che ci espone ad un destino di mancanze ed alla continua presenza del negativo. La vita è una continua negoziazione tesa ad esorcizzare il negativo, a farlo convivere con la nostra costitutiva incertezza.
Così, ne “La regina nera”, questo gioco esistenziale diviene una partita a scacchi, che si protrae indefinitamente, alle spalle della Donna Eterna. La sua presenza è costante, immateriale eppure pervasiva. E’ l’alveo di senso dell’esistenza dei due giocatori, che pur sottraendosi al suo sguardo sono continuamente risucchiati dalla loro identità. Un’identità che è esposta alla temporalità, che si dilata in un tempo immemorabile, ma che porta i segni tormentati di una eternità mancata. E’ una eternità macchiata dai segni del tempo e della finitezza, e che per questo deve continuamente scegliersi e voltare le spalle alla Venere. Eppure non si esaurisce nell’attimo, resta impregnata di sentimento, di formazione e di vocazione, in una partita in cui l’umano resta continuamente implicato nel divino, senza mai potersi in esso inverare del tutto.
“Il vestito della madre” è una discesa nel ventre della nostra esistenza. E’ uno strappo violento, materiale, che cerca di toccare l’origine della vita, delle nostre ombre. C’è forse un contenitore di tutto ciò, c’è un segno tangibile del nostro essere? Lo strappo di Pino Spadavecchia è la rievocazione di un negoziato a cui in ogni momento siamo chiamati, che ci invoca a rimetterci in questione. Siamo gettati nell’esistenza senza una origine tangibile a cui far risalire la causa di tutto ciò che facciamo, senza poterci “fondare”. E a voler trovare un fondo al nostro agire restiamo impigliati in una smagliatura irrimediabile, violenta, che scompagina la nostra identità senza pervenire alla sicurezza anelata. All’origine di tutto non troveremo altro che noi stessi, seppur scompaginati nelle nostre certezze, ridotti ad uno strappo, in cui emerge la nostra intimità più profonda, la nostra stoffa essenziale. Siamo chiamati a fare i conti non con un’entità determinata, ma con il nostro strappo, che in ogni momento non possiamo che ricucire, assumendo la nostra finitudine e scegliendoci.
La vita, nelle opere di Pino Spadavecchia, è un percorso mai esausto fra le maglie della temporalità, che ci pone continuamente dinanzi ai suoi spettri, scompaginando ogni identità costituita. Non c’è un punto di risoluzione, né via di fuga. Siamo chiamati a riappropriarci continuamente degli strappi sulla nostra immagine, assumendo la nostra totale esposizione al tempo e ai suoi tranelli.
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Autore: Giacomo Pisani