La “Controra” nel porto di Molfetta
Appunti di storia
Oramai è solo un ricordo dei più anziani le passeggiate lungo lo scalo d’alaggio a Molfetta dove al ticchettio continuo delle mazzuole si respirava il profumo del legno appena segato, l’odore acre e pungente della pece e quello del sego. Tutte queste sensazioni nell’arco di un ventennio non si sentono più lasciando presagire un non ritorno. Quello che presentiamo è un articolo sul lavoro dei mastri d’ascia a Molfetta apparso su La Gazzetta del Mezzogiorno del 21 luglio 1943. Lasciamo al lettore scoprire quanto abbiamo perso e stiamo ancora perdendo. PICCOLO MONDO PAESANO “Controra” nel porto di Molfetta Ancora oggi calafati e carpentieri lavorano come in antico: la loro arte e i loro ideali non sono mutati. Se si viene a Molfetta di pomeriggio mentre ancora il solleone abbacina gli occhi e appesantisce l’aria, il porto appare come un piccolo immoto lago dalle bianche rive su cui vigilano, severi e arditi, i due campanili mozzi della Cattedrale duecentesca. Sul molo un gruppo di ragazzi gioca al rincorrino: le loro grida sottili giungono da lontano come infrenate dalla canicola e pare rispondano in sordina ai ritmici colpi dei martelli che fissano le chiavarde sugli scheletri massicci dei motovelieri. Carpentieri e calafati vivono qui ed agiscono in serena comunione come legati dal vincolo di una corporazione medioevale. Dietro ad essi, vi sono infatti secoli di storia. UN BINOMIO INSCINDIBILE Lodando l’audacia dei pescatori molfettesi che, in tempo di pace, affollavano tutti i porti levantini e algerini e oltrepassavano talvolta le chiuse del canale di Suez per esercitar la pesca nel mar Rosso, ammirando la vita del lindo porticciolo, non si possono dimenticare questi uomini dagli occhi grigi e dal viso che pare tagliato nel legno come le polene delle navi di ieri, dalla voce cantilenante, forse per richiamo delle nenie cantate nei millenni dai padri su tutte le contrade del mare nostro. Non si può conoscere Molfetta se non si conoscono questi uomini: le loro figure sembrano staccarsi da un quadro allegorico, su cui c’è uno sfondo di città turrite e di navi e vele gonfie. Per essi, come per la loro città, nulla di quanto nei secoli fu conquistato è andato perduto; la coscienza, le tradizioni gli ideali di vita non sono affatto cambiati; e non è cambiata la loro arte. Ancora oggi calafati e carpentieri lavorano come nei tempi antichi: alle navi d’oggi, velieri e motopescherecci, pontoni e barchette, danno la loro opera coi mezzi stessi e con gli stessi risultati coi quali la davano alle fuste di Federico II. Forse pensò ad esse e alla loro fatica ordinata, disciplinata e concorde, il dotto storico molfettese Francesco Carabellese quando scoprì l’esistenza delle antiche libertà municipali nei Comuni della Puglia fin dal secolo XI, e cioè prima ancora ch’esse fossero instaurate nei Comuni dell’alta Italia. Il carpentiere e il calafato, binomio inscindibile, pronubo di fortune per questo ricco e attivo Comune che è stato antesignano nel settore dell’industria pugliese! L’uno adusato a ridurre e sagomare tronchi di quercie per montati costoni e carene con l’aiuto dell’ascia tagliente; l’altro, depositario della specialissima arte che richiede capacità di mano e di cervello. IL FERRO DEL MESTIERE L’insostituibile e prezioso “ferro del mestiere” del calafato è infatti l’indice della sua mano sinistra. La sacca di stoppa, il calderone di pece, i vari ferri minuti per allargare uguagliare e mondare le sconnessure sono necessari alla sua opera, ma senza questo dito egli sarebbe come un pilota senza vista. E’ questo indice che procedendo lungo le fessure del fasciame, da destra verso sinistra, le misura, le studia, ne scopre le esigenze, anche senza il soccorso degli occhi: e la mano destra ne segue le tattili constatazioni inserendo i batuffoli di stoppa prima uno, poi l’altro, poi un terzo e, infine, la pennellata di pece odorosa e fumante. Il calafato ha un altro vanto: la sua fatica non può essere sostituita dall’automatismo della macchina. Le prove e gli esperimenti tentati sono completamente abortiti, sicché il calafato vede davanti a sé, secoli e secoli di lavoro fermo e luminoso come le sicure terre di approdo per piloti di cabotaggio. Finché l’uomo navigherà sul mare, finché navi attraccheranno ai moli, finché nuove imbarcazioni saranno costruite nei cantieri, i calafati e la loro arte vivranno e prospereranno. Se conversate con essi nelle ore di riposo, quando l’ora canicolare si perde nella vampa del sole che sfarina le pietre, vi parlano di traversate oceaniche fatte su navi guerriere, di figli dispersi nel gorgo dell’immane conflitto, tributo di sangue vivo offerto alla Patria in armi, dell’alterna vicenda delle stagioni. Appena si dice: finisse presto questa caldura, ecco che l’altra stagione è cominciata: e ci pare di non averla sofferta abbastanza! ESISTENZA SAGGIA Sagge parole! Più saggia esistenza! Sembra come se questi artieri sappiano tutto ed abbiano scoperto il mistero ch’è in tutte le cose. Quando la controra è consumata ed essi si rimettono al lavoro con rinnovata lena sentiamo infatti tutta la felicità ch’è nella loro vita. Noi cittadini non la sapremo mai cogliere questa felicità, o perché non sappiamo, ignoranti che siamo, o perché la sdegniamo per volare con ali di mosca che odia lo zucchero. Quando torniamo sui nostri passi ci sembra di camminare sul piancito di un forno, tanto il selciato è rovente: tra l’acqua e la banchina c’è come una fiammata solare che s’imbianca alla cote delle cento case candide di calce. Cerchiamo, fra pietra e pietra, un pergolato consolatore, ma non lo troviamo. Solo di là del porto la macchia grigia di un bastimento in arrivo pone il fermo all’accecante fiammata solare. I ragazzi che sono sul molo smettono di giocare e tentano di leggere il nome sui fianchi del veliero che fa fatica a liberarsi dal cerchio dell’orizzonte. Le lettere sono evidentemente corrose se la parola si articola a stenti sulle loro labbra atteggiate a meraviglia. Meglio così. Ché, pei ragazzi, tutto è buono per fantasticare! Finalmente il veliero doppia la punta del molo e si avvicina alla banchina: nella calma piatta ed oleosa riesce a dondolare appena appena. I cavi si attorcigliano, qualche marinaio salta a piedi nudi sul selciato. Terra! I bimbi si mettono in fila a guardare; le dita dei piedi coprono giuste giuste l’angolo aguzzo del marciapiede, e a fare mezzo passo avanti cadrebbero in mare. Stanno fermi un po’ da una parte, disinvolti e sorridenti come gentiluomini in fila nelle barcacce di proscenio per guardar meglio la “prima donna” che entra in scena. Più tardi, quando il sole è all’occaso, il ponentino che si è levato da poco conduce al porto le paranze che han pescato al largo con la grande rete a strascico. Le prue rosse e nere si abbassano e si levano come becchi di grandi uccelli le cui ali puntute si gonfiano alla brezza. Sulla banchina si addensa una folla di curiosi e di mercanti che attendono ansiosi l’apparizione dei pesci traboccanti dalle casse allineate sulle tolde. Il sole accende ora sul mare scintille d’oro: le onde si muovono, risplendono, si rinnovano ad ogni bordata. I riflessi trovano riscontro sulla viscida lucentezza delle trigliarelle dei soraghi e della fragaglia dalle cento forme che, con le barche, si accostano alla riva. GLI ANTICHI SEGNI Cento e cento voci accolgono le imbarcazioni che hanno ammainato le vele e toccano dolcemente la banchina per scaricarvi il loro guizzante fardello. Poi è il rosso tramonto che indora i conci delle case affacciate sul mare ed in vermiglia le fronde degli ulivi contorti. L’Adriatico solleva incandescenze d’acciaio verso il cielo rosato e si placa, a oriente, in un velluto turchinoccio appena increspato dalla brezza ponentina. La rosea luce ci lascia più tardi lentamente, ricordo del faccione acceso del sole che s’è immerso dietro le montagne del Gargano. Le paranze si toccano come donne pigre e grassocce in un letto troppo stretto mentre l’acqua s’illividisce e trema. La sera cala sulle case e mette il velo nero sull’arco di mare e sulla terra prosperosa. Dalle alberate che s’incupiscono al bacio delle ombre giungono fragranze di foglie secche e richiami di gente antica. Avevamo dimenticato che in una voragine immane spalancata tra i boschi d’ulivi a ridosso del paese furono scoperte le tracce di una popolazione neolitica: selci appuntite, ceramiche primitive, domestici focolari cantano ancora l’epica di un’età sepolta. L’abate Giovane, scienziato molfettese valentissimo, trovò gli aghi che servivano a cucire le pelli degli animali uccisi, le asce che servivano alla difesa ed all’offesa, e si pose a rincorrere i fantasmi di un mondo ch’era tutto da supporre e da ricostruire. La vita avanza ogni giorno inesorabile e fatale soltanto tesa verso il domani e mentre gli uomini passano, il destino pietoso di ogni terrena, inconsapevolezza, trattiene ed impedisce la sparizione totale dei segni ch’essi lasciano del loro passaggio nel mondo. Ed ecco il complesso di una immortalità quanto più bella quanto più piena d’interrogativi, quanto più suscettibile di poesia. Certo anche questi italioti primigenii, questi manipolatori di armi petrose, questi ospiti delle caverne del Pulo di Molfetta si affacciarono sul mare e sentirono il suggestivo miraggio di lontananti contrade. Può darsi che da essi sia partita primamente l’ansia di andare per tutti i mari, di toccare tutti i porti, quell’ansia che penetra oggi i cuori di questi marinai audaci e venturosi. Non è vero forse che nelle vie misteriose della storia i morti pilotano i vivi?
Autore: Corrado Pappagallo