La causa dei più umili
La morte di un partigiano
Cinque anni fa si inaugurava a Molfetta la sezione dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), intitolata a Giovanni e Tiberio Pansini, antifascisti. Le numerose iniziative promosse hanno avuto come scopo precipuo la difesa della Costituzione Repubblicana, della Democrazia, della Pace. Si è onorata e rinnovata la memoria di coloro che hanno combattuto nella lotta al nazifascismo e che ci guidano con il loro esempio nel vigilare sui pericoli che incombono. E ci è sembrato non vi fosse migliore occasione di questa per far conoscere ad un pubblico più vasto il documento che segue e cioè la Lettera inviata da Giovanni, fratello di mio nonno Ignazio, a mio padre, con la notizia della morte di Tiberio, suo figlio, assassinato a Sondrio da militi fascisti, il 9 aprile 1945. La missiva fu pubblicata una prima volta, insieme ad altri documenti, nel gennaio del 2000, dal compianto Prof. Lorenzo Palumbo, nel n. 12 di “Studi Molfettesi”, rivista del comune di Molfetta, diretta da Marco Ignazio de Sanctis. Il titolo era “Per non dimenticare, oggi soprattutto. Documenti inediti su Giovanni e Tiberio Pansini”. Le carte erano state gelosamente conservate da mio padre Tiberio, cugino del Caduto. Scrivo queste note mentre la televisione trasmette le immagini dell’ultimo massacro a Gaza. L’Occidente e la sua presunta civiltà pagheranno molto caro le catastrofi e le montagne di cadaveri che hanno disseminato nel mondo in nome dei loro presunti valori. Milano li 28 giugno 45 Carissimo Tiberio e tutti, devi scusarmi se non ho risposto subito alle tue carissime, ma il mio stato d’animo non è certo di quelli propensi a passare qualche ora serena. La legnata è stata così improvvisa e così grave che ancora oggi non ci rendiamo conto della sciagura che ci è capitata. Abbiamo passato un anno di ansie e di terrore al pensiero di quanto poteva accadere ma gli ultimi tempi eravamo abbastanza tranquilli. La fine che tutti vedevamo prossima ci aveva fatto dimenticare di quali canaglie si aveva a che fare tanto che l’ultima volta che avevamo visto partire il Berio nessuna preoccupazione si aveva sul suo conto. Ti racconto i particolari così come li ho in parte vissuti io ed in parte mi sono stati raccontati da quelli che hanno avuto il piacere di stargli vicino fino all’ultimo momento. La mattina del 26 marzo verso le 8.30 fui chiamato al telefono dalla guardia repubblicana di Sondrio che mi domandò i motivi per cui il Berio si trovava a Sondrio. Risposi che lo ignoravo, ma che presumevo si fosse recato in quella località per motivi professionali. Alle insistenze del Comandante, il quale asseriva che il Berio aveva affermato di essere io a conoscenza del suo viaggio, risposi che poteva darsi benissimo ma siccome ero reduce da una malattia al momento non ricordavo. Poi mi furono chieste quali erano le condizioni di salute di mia moglie. Mangiai la foglia e risposi che essa era gravemente ammalata di nervi e che molto probabilmente il Berio si era recato a Sondrio per trovare un luogo di cura e di riposo per sua mamma. (In realtà era questo il motivo che aveva addotto il Berio). Il Comandante si dimostrò abbastanza persuaso tanto che mi domandò se volevo parlare al telefono con lui. Lo ringraziai ed il Berio mi disse, e furono le ultime parole che ho sentito da lui, di stare tranquillo che sarebbe tornato a Milano per la sera od al massimo per la mattina successiva. Puoi capire che non sono stato con le mani in mano. Ne parlai subito agli incaricati del suo partito, informai i miei amici, misi di mezzo il C.I.N.A.I. ed infine mi rivolsi ad un avvocato che aveva lo studio a Sondrio e che era un pezzo grosso del fascismo. Riuscii anche a far interessare della sua sorte il Prof. Cardillo della Clinica radiologica di Milano, che come sfollato era il primario dell’ospedale di Sondrio e da lui ebbi le prime notizie che mi dicevano che il Berio era trattenuto in attesa di informazioni ma che, siccome non era stato preso con armi, non dovevo nutrire timori sul suo conto. Poi il Prof. Cardillo fu ucciso in una scaramuccia e non seppi più nulla neanche dal mio Avvocato. Il giorno sedici il suo partito mi informò che il Berio era stato tradotto a Milano e lo stesso giorno riuscii a far emettere nei suoi confronti mandato di scarcerazione. Naturalmente il Berio non era a Milano perché era stato fucilato a Sondrio la mattina del 9 aprile alle ore 10. La notizia me la dette il mio Avvocato che mi aggiunse che era stato riconosciuto da informatori quale partigiano. Mi disse anche che, secondo quanto gli avevano riferito, il Berio aveva confessato la sua appartenenza ai partigiani come sanitario. Per essere più preciso la spia lo conosceva solo come medico di una formazione. Continuando affermò che il Berio aveva asserito che prima di essere fermato aveva nascosto un plico nelle boscaglie di Postalesio e che, invitato a recuperarlo, vi si fosse recato e in un tentativo di fuga fosse stato ucciso. Naturalmente non credetti una sola parola di quanto disse per giustificare l’assassinio del mio figliuolo e ne ebbi prova quando recatomi il 5 maggio a Sondrio ho interrogato personalmente gli esecutori materiali dell’assassinio. Mi dissero che il capitano ed il tenente avevano affidato a loro due il compito di ammazzarlo e che lo avevano fatto dopo avergli fatto percorrere sei Km a piedi ed aver ricevuto dal morituro le sigarette perché la lunga strada sembrasse meno... pesante e noiosa. Puoi capire con quale stato d’animo abbia ascoltato la confessione dei due delinquenti e quel sia stata la mia logica risposta. Non ho potuto interrogare il capitano ed il tenente nonché le due spie perché erano state fucilate il giorno prima del mio arrivo. Ho parlato invece con i suoi compagni delle ultime ore uno dei quali cattolico convinto mi disse che lui dopo Cristo crede a Tiberio Pansini per la grande forza d’animo, la grande serenità e la calma che dimostrò fino all’ultimo minuto. Fin dal giorno 6 aprile era stato destinato all’estremo sacrificio, che poi fu rimandato di giorno in giorno nella speranza che sotto l’incubo della morte prossima si decidesse a confessare ed a fare i nomi dei suoi compagni. Fu anche torturato senza che riuscissero a strappargli un nome. Prima che fosse portato all’esecuzione affidò la sua macchinetta per le sigarette perché ci fosse portata insieme al suo ultimo saluto. Tutta la sua roba è stata rubata: bicicletta, cronometro, borsa dei ferri, portafogli con circa L. 20.000, occhiali, e tutti quanto il povero figliuolo possedeva e nulla ho recuperato. Oggi che non è più non so rassegnarmi all’idea di non più rivederlo e sebbene lo abbia fatto portare al Cimitero Maggiore di Milano nel campo dei martiri pure... Ricordo solo che lo hanno abbandonato per due giorni in una boscaglia; che successivamente fu pietosamente raccolto dalla moglie di un partigiano e portato nella chiesetta del cimitero di S.P. di Berbenno, ove restò ancora due giorni sulla nuda terra insepolto, fino a quando non venne poi il permesso e che poi fu seppellito senza nome perché di lui si conosceva solo il nome di battaglia: dottor Rossi. Era ispettore di zona del Partito Comunista Italiano ed aveva il grado di tenente Colonnello. Sotto il suo nome di battaglia era stato condannato a morte già due volte: una prima volta nel Comasco ed una seconda in Valsassina. Malgrado tutto era sempre sereno, aveva il suo solito sorriso buono ed era pieno di fede e di entusiasmo per la sua ida e per l’abnegazione dei suoi compagni che esponevano quotidianamente la vita per il raggiungimento del sogno di vedere la nostra Italia libera ancora una volta dai tedeschi, e dai servi sciocchi: i fascisti. E questo è tutto. Per quanto con noi vi sia la Lele, tanto mia moglie che io ci sentiamo tremendamente soli e non ti nascondo che vedremmo volentieri l’arrivo di un accidenti che ci porti via. Ti ho scritto quanto so e ricordo in questo momento di Lui e della sua fine, ma francamente non voglio rileggere per non strappare. Come si fa ad essere calmi e tranquilli scrivendo di Lui? Ti ringrazio di avermi detto quanto pensavo e non ardivo dire: il migliore di tutti noi è andato e non tornerà più. A te oggi che porti il suo stesso nome incombe l’obbligo di ricordarlo più che gli altri e di seguirne l’esempio luminoso di dedizione alla causa dei più umili. E anche di voler bene a mia moglie ed a me quasi per compensarci del suo immenso affetto e della sua tenerezza, che abbiamo perduto. Ho un ingrandimento suo ricavato dalla fotografia che fece per la laurea ed a suo tempo te lo farò avere. Di suo non mi restano che i libri, che tu già hai, ed un Erkameter per la pressione sanguigna e qualche ferro. Dimmi cosa ti può interessare ed io lo conserverò per te. Ed ora ti lascio. Ho scritto come ho potuto e piangendo. Compatiscimi e voglimi bene lo stesso. Ringrazia tua mamma, Michele e Palino per le loro buone parole e mi abbiano per iscusato se non scrivo loro personalmente. La presente vale per tutti. Di Vito nulla più so dall’aprile dello scorso anno e non conosco nessuno in questo momento che possa fare interessare. Mi auguro e spero che la presente lo trovi già a casa. Ti bacio ed abbraccio con grande affetto. Zio Giovanni
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