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Io giovane volenteroso con voglia di fare impresa a Molfetta ma istituzioni contro. Vi racconto la mia assurda storia
15 novembre 2014

La contestazione più onerosa che ho ricevuto prevede una “punizione” dai sei ai trentaseimila euro. Tanto basterebbe a far chiudere i battenti ad un’esile start up, mandando a casa titolare e lavoratori. No: non organizzo combattimenti clandestini, non ho picchiato nessuno, non ho evaso, non ho commesso nessuna rapina a mano armata. Non ho commesso nessun atto doloso. Semplicemente sull’adesivo standard che informa della videosorveglianza non erano indicati il mio nome e cognome. Esattamente come nella maggior parte degli esercizi pubblici videosorvegliati (fateci caso). Esattamente come agli ingressi a vetro del centro commerciale la Mongolfiera di Molfetta (fateci caso). I Carabinieri, però, hanno ritenuto di soffermarsi sul mio locale. La mia è una – piccola – ditta individuale: io sono l’unico responsabile del mio locale. Eppure non aver indicato il mio pleonastico nome su questo adesivo (appunto, per identificarmi sarebbe bastato dire “il titolare del locale”) è un reato dai sei ai trentaseimila euro di multa. Costa, di fatto, la chiusura di una – piccola – attività. In piena crisi economica. Questo l’effetto, meno chiaro il fine. Non è un romanzo cyber punk: è il nostro Paese ed è successo a me. Prima di cominciare a raccontare la mia storia, vale la pena mettere a fuoco questo evento. Così, tanto per farsi un’idea. Tanto per misurare le accuse e le reprimende di fango, i giudizi sbrigativi e le arringhe di chi parla senza cognizione di causa. Tanto per arginare con un minimo di dignità intellettuale l’epidemia di opinionismo che si è abbattuta sulla nostra comunità, come fosse un paesino di montanari con tremila anime, una parrocchia e un ufficio postale. Nelle intenzioni A dire il vero inizialmente non volevo chiamarlo allèmmérse, il mio Lab Café. Volevo chiamarlo “Cabaret Voltaire”, come il celebre locale di Zurigo, che all’inizio del secolo scorso fecondò l’Europa con i semi di quella singolare rivoluzione artistica e culturale che ha disconosciuto tutti i linguaggi (significati e significanti), per rappresentarne l’esigenza di nuovi: il Dadaismo. Doveva essere un luogo di scambio, di discussione, dove alimentare la curiosità intellettuale, far nascere progetti, generare pensiero. Un luogo dove nell’intimità di uno spazio comune – non appaia un ossimoro – potersi ritrovare in modo costruttivo. Uno spazio di cittadinanza, di persone interessanti e interessate, artisti e creativi. Dove divertirsi, certo, ma soprattutto dove esprimersi. Attraverso le arti e la creatività. Poi ci è sembrato troppo pretenzioso chiamarlo Cabaret Voltaire e abbiamo cambiato idea. Ma solo sul nome. Così ho abbandonato la città eterna, una carriera avviata, una posizione sicura e appagante, i viaggi in Europa e gli importanti affetti costruiti in questi anni a Roma perché ero e sono convinto che la vita in una città di provincia possa essere più a misura d’uomo. Gli uomini, però, si sa, hanno stature diverse (soprattutto quando dagli interessi collettivi ci si sposta a quelli particolari, privatistici) e determinarne una misura universale non è semplice: quindi quel “a misura d’uomo” resta di fatto un concetto ancora tutto da definire. Intanto, Molfetta aveva – ed ha – la misura a cui volevo tornare. Con il mio bagaglio. Dopo sette anni fuori, sono tornato in Puglia. Tenendo fede, peraltro, al “patto d’onore” siglato con l’accettazione della borsa di Bollenti Spiriti, che avevo vinto nel 2006 e che mi consentì di fare il master in Marketing and Service Management alla Federico II. Bollenti Spiriti fu una formidabile opportunità per me e per molti giovani della mia generazione, ma prevedeva un impegno a ritornare, prima o poi, nella nostra terra. Per arricchirla con le nostre esperienze, competenze, energie. Non era un vero e proprio obbligo, ma io quel “patto d’onore” l’ho preso sul serio. E sono tornato qui. Senza cercare scorciatoie, rifuggendo da ogni ricatto. In cambio ho fatto, appunto, delle rinunce. Significative. Per un paio d’anni, mentre continuavo il mio lavoro di ricercatore, mi sono documentato sul settore in cui mi accingevo ad investire (dal sistema d’offerta ai prodotti da proporre, dalle normative nazionali a quelle locali), ho scritto il mio business plan e poi… ho cercato di fare impresa sana. Quindi, ho fatto un bagno di umiltà, ho imparato a fare i caffè, ho assunto dei lavoratori, ho aperto la mia attività e ci ho buttato dentro il cuore, i sogni e un bel po’ di soldi. Sapevo d’aver fatto una scelta difficile, ma ne ero orgoglioso: avevo capito come tornare. A modo mio. La scoperta Ma quando quella sera chiesi alle forze dell’ordine “mi state trattando come fossi un delinquente?” e mi risposero seccamente “Ha capito bene allora”, in realtà capii di non aver capito niente. Realizzai d’aver capito tutto male. Era l’ennesima visita dei Carabinieri nel mio locale. In primavera si era intensificato il loro interesse verso di me. Avevo perso il conto. Sempre rigorosamente durante le serate nel weekend, quando la gente esce di più. D’altra parte i militari furono onesti. La mia domanda apparve retorica, quindi, ho pensato: sì, io ero considerato un delinquente. Prima di accertare i presunti reati, io ero già fuori dalla logica desiderata. Ma qual era questa logica? Quella sera ci fu l’ennesima ispezione (prima della mezzanotte). Il locale pieno di clienti, il magazzino aperto con le bottiglie in bella vista e una montagna di scartoffie da esibire. Proprio allora, proprio durante la serata, per dimostrare la mia innocenza non è chiaro rispetto a cosa. Avevo anche chiesto di andare il giorno dopo in caserma, per esibire tutta la documentazione richiesta (una quantità impressionante). Ma era allora che bisognava fare l’accertamento: durante le mie serate. Mentre negli altri locali si godeva della legittima vitalità del fine settimana, nel mio si facevano accertamenti. Come quelli della settimana precedente – sempre durante una serata, sempre prima della mezzanotte – quando le stesse forze dell’ordine accompagnarono gli ispettori del lavoro. Naturalmente trovarono tutto in regola e, anzi, una ispettrice congedandosi, dopo aver registrato che nel mio locale non c’era nero e, al contrario, c’erano i tempi indeterminati (in un bar), mi diede l’in bocca al lupo. Mi sentii orgoglioso, ma non sapevo quello che sarebbe arrivato dopo. Tutte le ripetute visite e tutti i ripetuti accertamenti – sul lavoro nero che non c’era, sulla SIAE (?!?) che avevo sempre pagato, sul canone RAI (?!?) che era in regola, sulla comunicazione alla dogana per la somministrazione degli alcolici che era in regola, sulla licenza che era in regola, sulla Tosap che era in regola, sulle prestazioni degli artisti che erano in regola, sulla formazione del personale alimentarista che era in regola, sull’aria da respirare che era in regola – così come sugli altri machiavellici cavilli che fino alla fine hanno generato un nutrito verbale a mio danno dovevano nascere sempre e solo da un unico motivo. Mentre io dovevo capirlo questo motivo, loro dovevano fermarmi. E se non si poteva colpire il motivo specifico, bisognava individuarne degli altri. Per punirmi. I miei crimini Il punto è che io non dovevo fare eventi. Né prima della mezzanotte – come sempre era – né dopo. Né rispettando i differenziali acustici – come sempre era – né andando oltre (cosa che il mio impianto non consentiva, visto che era munito di sigilli). Né gratuiti – come sempre era – né a pagamento – come non ho fatto mai. Oltre ai live – per lo più acustici e spesso portando a Molfetta emergenti dall’Italia e dall’estero che proponevano musica propria, non cover –, allèmmérse era rea d’aver realizzato piccoli eventi teatrali (anche teatro per bambini), arti visive, caffè letterari, book crossing, poesia, selezioni musicali. Non puro entertainment. D’altra parte il Decreto Cultura del 2013 appariva spingere verso la rivitalizzazione di un tessuto artistico sempre più senza ossigeno. Questo siamo noi. Questi i nostri crimini. Ritenendo malgrado tutto di essere una brava persona, di non aver nulla da temere, ho continuato ad avere un atteggiamento rispettoso delle forze dell’ordine e quanto più sereno possibile. Alla base, un’ostinata fiducia nelle istituzioni del nostro difficile Paese. Il loro intervento non poteva essere arbitrario e sicuramente nasceva da una certa quantità di segnalazioni. Evidentemente, al di là dei limiti e delle perizie fonometriche, qualcuno non riusciva proprio a rassegnarsi al fatto che il centro di Molfetta non è un quartiere dormitorio, ma un’area ad alta densità abitativa (e quando a Molfetta avremo la zonizzazione acustica lo capiranno anche i più ottusi). Numerose segnalazioni, quindi. Facciamo un piccolo inciso: nell’autunno del 2013 – un venerdì, verso le 23 – vedemmo passare un’ambulanza seguita poi dai Carabinieri. L’ambulanza si fermò in via Rattazzi, nei pressi del locale: i fari blu penetravano la vetrata e coloravano le bottiglie. Dall’edificio provenivano urla strazianti, disperate. Le sentirono in molti. Non so se esiste un reato di falso allarme, quello che so è che una pattuglia dei Carabinieri è stata costretta a verificare che all’interno del locale (non avevo ancora il dehors) c’era un piccolo live con chitarra acustica e voce. Facevano songwriting, al massimo Coldplay. Che bella segnalazione. Come quell’altra segnalazione che impegnò un’altra pattuglia dell’arma a verificare che nel mio locale non si facesse karaoke (avranno sbagliato locale?), mentre in sottofondo Eddie Vedder cantava Society. Un’altra volta notammo una pattuglia ferma davanti al locale, mentre all’interno (con la porta chiusa) c’era un apericena di compleanno. I clienti seduti e la musica di sottofondo. Un’altra allarmante segnalazione? Non lo sapremo mai. Ricorderemo, invece, la faccia sbalordita di quei militari che chiamai io – ma a quanto pare avevano già ricevuto la consueta telefonata – quando a dicembre 2013 feci vedere il video appena registrato di quel signore che dal primo piano dell’edificio del locale versò dell’acqua fredda verso il basso. Rigorosamente prima di mezzanotte. All’interno del locale (non fuori) suonavano contrabbasso e tastiera. Jazz elettronico. Sostiene Cesare Beccaria Il lancio dell’acqua era stato preceduto qualche settimana prima dal ritrovamento di acqua e feci sull’ombrellone. Ed aveva anticipato una curiosa caduta di altri liquidi sulle pertinenze del locale (lo ripetiamo per l’ennesima volta): olio, acqua e pesci putrefatti, ancora olio, fino al liquido corrosivo (candeggina concentrata? acido muriatico?) piovuto dall’alto nel periodo di Pasqua. Le nostre segnalazioni alle autorità sono cominciate verso ignoti, poi abbiamo cominciato ad avere qualche sospetto. Chissà quante segnalazioni avranno intasato le linee telefoniche. Fino all’exploit di questa primavera. Facevo eventi musicali e teatrali nel dehors. Il venerdì o il sabato. Entro la mezzanotte. Dopo la mezzanotte, nel weekend, al massimo selezioni musicali (rarissime volte) e sottofondi. E sempre con il mio impianto acustico rigorosamente tarato in seguito a specifica perizia fonometrica. Ogni volta chiedevo alle forze dell’ordine di verificare i sigilli apposti sui potenziometri. Sulle casse (due jolly 8 alte quanto uno sgabello) e sui canali sorgente del mixerino a tre canali. Non esattamente la strumentazione dei Pink Floyd. Spiegavo che la perizia – eseguita da un professionista autorizzato, un ingegnere con competenze specifiche nella materia, con un master in acustica – era stata realizzata alla presenza del nucleo ambientale dei vigili urbani. In contraddittorio. Il mio impianto non poteva superare i differenziali previsti dalla legge. I famosi decibel, piaccia o no, erano in regola. Che l’avrei fatta a fare la fonometria, se non avesse risolto tutti i problemi? Ma le singolari opinioni di pochi dovevano invadere, soffocare, “annullare” (come è stato scritto) la mia attività. Che fossi in regola, oppure no, ero fuori dalla logica desiderata. Ci sono riusciti Dovevano fermarmi, quindi. Non ho mai creduto più di tanto alle teorie complottiste, ma l’intento era chiaro: dovevo finirla. Non altri locali: il mio, quello sulla piazza morta che è tornata viva. Era una questione di principio. Ci sono riusciti. Ci sono riusciti a fermarmi. Certo, prima ho dovuto subire numerose bizzarre violenze sul mio locale, sulla mia serenità, nella mia reputazione. Certo, prima ho dovuto passare numerose notti insonni a fare la ronda nei pressi del locale per vedere se qualcuno ci lanciava qualcosa sopra. Certo, prima ho dovuto leggere fiumi di parole sul mio conto e sul conto del locale, descritto come una specie di discoteca di ubriaconi, un luogo malfamato di una generazione senza idealità e senza impegno. Certo, prima ho dovuto subire pedinamenti della mia auto (addirittura le foto di dov’era parcheggiata) e insulti a piena voce (sarei un “porco senza Dio”). Certo, prima ho dovuto ricevere un verbale, in seguito agli accertamenti di cui sopra, con multe che vanno da un minimo di circa 8.000€ ad un massimo di circa 45.000€ (ma non per la musica: per contestazioni che vanno dal cartello vietato fumare non regolamentare alla scritta del mio nome sul cartello della videosorveglianza. Appunto). Prima tutto questo e poi… l’avviso di garanzia, la causa, il sequestro cautelativo dell’impianto audio (lo stesso che aveva i sigilli, quello tarato dal tecnico abilitato alla presenza del nucleo ambientale dei vigili urbani). Perché? Non perché siano state accertate comprovate irregolarità, ma perché c’è il “fumus” del reato. Così, si taglia la testa al toro (con una mannaia, con un macete, con una ghigliottina). Ed io, ancora una volta, rispetto le regole, le istituzioni. Mi sono da subito dichiarato disponibile a ripetere le rilevazioni fonometriche, alla presenza anche di un tecnico della controparte, o a cura dell’ARPA, o di una commissione di tecnici. Di chiunque possa garantire la conformità alla legge, la certezza del diritto. Anche dei miei diritti, che ho investito a Molfetta e che ci ho creduto. Nel frattempo nel mio locale sono cessati gli eventi incriminati. Prima della mezzanotte. Nel week end. Ho passato un’estate a fari spenti, mentre tutti gli altri locali in alta stagione – a Molfetta e nelle città limitrofe – potevano lavorare tranquillamente. Ho cominciato i licenziamenti. Spesso la nostra terra si rivela brulla, avida, corrotta come un software che… doesn’t work. Il meccanismo si inceppa dove può permetterselo. Evidentemente con me poteva permetterselo. E al danno la beffa: per settimane sono continuate vigliacche insinuazioni su presunti benefici di cui avrei goduto per non meglio definiti agganci politici (Quali? Quali benefici? Quali protezioni?). Questa è la mia storia. Una prolissa (me ne scuso) sintesi (credetemi) di emozioni e fatti. Un imponente cumulo di motivi per dirsi ogni mattina e ogni sera: ma chi te l’ha fatto fare. E la risposta è sempre lì, ogni volta, in quel nome: allèmmérse. In quel nome che abbiamo scelto – io e la mia paziente e coraggiosa compagna, che dopo mezza vita a Roma è diventata molfettese d’adozione. Allèmmérse invece di Cabaret Voltaire. Da su, siamo scesi giù. Alle sicurezze abbiamo preferito l’esplorazione. Alle mete, il cammino. Al fascino della forma (il mondo dei manager, della consulenza, delle grandi aziende), la sostanza delle relazioni umane, dell’impegno. Alla vita preconfezionata, la costruzione di una vita nuova, qui, nel nostro Mezzogiorno, allèmmérse. Più a misura d’uomo. E siamo ancora sicuri di essere nel posto giusto.

Autore: Corrado Minervini
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