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Il lavoro che non c'è: molfettesi costretti di nuovo ad emigrare Qualificati o no, non resta che partire. Lavoro nero, pendolarismo, precarietà, i mali cronici del sistema italiano tormentano i nostri giovani
15 febbraio 2004

“Allora, quando sali?”. Questa semplice domanda da citofono, sta diventando una triste quanto inevitabile persecuzione per i giovani della nostra città che si trovano a dover aprire per la prima volta le anguste porte del mondo del lavoro. Diplomati o laureati, manovali o impiegati il serafico quanto agghiacciante interrogativo non lascia scampo a nessuno. E se per chi la nostra città non l'ha mai digerita, in fondo la prospettiva non è così nera, per chi è legato alla nostra terra da affetti e interessi il suono di quella frase rimbomba ossessivo. Abbiamo fatto un piccolo viaggio nel mondo del lavoro molfettese cercando di comprenderne tendenze e problematiche per capire se alla fine l'emigrazione resta veramente l'unica fattibile soluzione. I dati di un problema I numeri parlano chiaro: un'inchiesta svolta dall'Istat (Istituto provinciale di statistica) mette la Puglia fra le dieci regioni dell'Ue con il tasso di disoccupazione giovanile più alto. Ma è il dato assoluto più che quello comparativo a preoccupare: il tasso stimato di disoccupazione giovanile nella nostra regione sarebbe del 49% (Fonte: Eurostat). Insomma un ragazzo pugliese su due con età compresa tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro non riesce a trovarlo. Dati del 2000 certo, ma senza dubbio le prospettive non sono rosee: un'altra indagine (su dati del 2003) parla di un decremento del tasso di occupazione relativamente alla provincia dei Bari pari allo 0,7%. I dati sono ancora più preoccupanti se calati nella realtà. Il calcolo del tasso di disoccupazione giovanile è fatto con i valori forniti dai centri dell'occupazione relativamente ai giovani iscritti alle liste di collocamento. Se consideriamo tutti coloro che per inerzia o per studio non si sono iscritti (il fenomeno di ragazzi parcheggiati in Università è in triste ascesa) allora possiamo renderci conto di come la situazione sia sull'orlo di un burrone. Lavoro nero e pendolarismo cronico Il lavoro in nero è una realtà che bene o male tutti i ragazzi della nostra città sono stati costretti a vivere. In particolare coloro che per mantenersi agli studi aiutano le proprie famiglie guadagnandosi le “giornate” in pub e ristoranti della nostra neo-città turistica. Dai 25 ai 70 euro al giorno (o meglio a “servizio”) a seconda del livello di abilità e della tipologia di locale. Il tutto, nella maggior parte dei casi, sottobanco e quindi senza copertura assicurativa ne tanto meno previdenziale. Il fenomeno facilmente condannabile andrebbe in realtà elogiato: almeno così qualche ragazzo riesce a mantenersi agli studi senza pesare sulle spalle, spesso stanche, dei genitori. Il problema purtroppo è che il mercato molfettese spesso non garantisce lavoro a sufficienza tant'è che intere “brigate” di camerieri di casa nostra si spostano spesso in sale ricevimenti e ristoranti dei paesi vicini. Ma se per gli studenti lavoratori una via per sbarcare il lunario c'è, per chi ha deciso che lo studio non fa per lui spostarsi nei paesi limitrofi non basta, l'unica via percorribile per non fare il cameriere a vita, è quella, lunga, che porta al Nord, Lombardia e Veneto in particolare, ma anche Bologna e Torino tra le mete forzate dei lavoratori di casa nostra. Attualmente ci sono aziende molfettesi in particolare nel campo dell'edilizia che lavorano esclusivamente con appalti al di là del Po. La nostra città industriale quindi lavora, ma per altri. Il risultato: maestranze molfettesi (stuccatori, imbianchini, muratori) si spostano periodicamente al Nord salvo poi ritornare a fine appalto (o a seguito di un ricambio in base alle esigenze aziendali) all'ombra del Duomo. Insomma, una sorta di pendolarismo malato che vede giovani (ma anche padri di famiglia) costretti a percorrere migliaia di chilometri al mese pur di portare avanti la baracca. Agli scettici consigliamo di fare un giro in stazione la mattina presto per rendersi conto di quanta gente vive questa realtà. Fuga di cervelli Ma non sono solo gli operai a non avere un bel rapporto con il mondo del lavoro. Anche per i “dottori” di casa nostra il futuro non sembra così roseo. Tirocini interminabili, studi legali zeppi di praticanti, lavoretti sottopagati e sottoqualificati, progetti di formazione post-laurea inesistenti. Queste le alternative che può vagliare un neo-laureato prima di acquistare un biglietto destinazione Nord. Del resto anche per loro la domanda è ben indirizzata. Un'avviata società di consulenza software che ha anche una sede a Molfetta, ha come “conditio sine qua non” per l'assunzione la disponibilità a spostarsi. Ma anche chi dovesse prendere l'incresciosa decisione di lasciare le mura amiche (e a Molfetta sono molti ad averlo già fatto) non ha di certo garanzie per il futuro. Le retribuzioni, quasi quattro volte più elevate del Nord, allettano solo chi riesce a non farsi schiacciare dall'angoscia di un futuro fatto di precarietà. Si chiamano “Contratti a Progetto”, in sostanza “restyling” berlusconiani dei vecchi odiati co.co.co., e nuova tendenza del lavoro flessibile, utilizzatissimi dalle società per assumere chi, come gli immigranti, non fornisce elevate garanzie magari perché intenzionato in un futuro a tornare a casa. Insomma, il problema è grave, soprattutto se si considerano le problematiche di tipo sociale come il difficile inserimento dei nostri ragazzi in ambienti diversi e spesso intolleranti, il ritardo nella creazione delle famiglie, l'invecchiamento di una città che perde i suoi giovani. Se è il lavoro che nutre una città oggi a Molfetta se non si fa la fame ci siamo vicini. Fabrizio Fusaro
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