Il girasole di Giovanni Salvemini
Dopo le poesie di Le ali della luce, edite da Fos di Corato nel 2018, nel 2019 ha veduto la luce un’altra silloge di Giovanni Salvemini, Il girasole, pubblicata da Mezzina. La raccolta, impreziosita anche dalla raffinata copertina di Marisa Carabellese, presenta due scritti introduttivi al testo, curati dal sottoscritto e da Onofrio Antonio Ragno. Quest’ultimo ben sottolinea, a nostro avviso, l’incidenza del fattore “tempo” nell’opera, nonché la scelta del titolo, felice “perché in ogni verso si intravede lo stupore, della luce soprattutto”. La silloge si apre con un testo da Salvemini dedicato al nipote Cosmo, che ci introduce alla poesia degli affetti familiari e al motivo della primavera, in boccio nel caso del giovinetto che “espone” (e questo verbo assume valore significativo nella raccolta) i “petali d’oro” al cielo infinito. Alla poesia di apertura si riconduce quella che idealmente conclude la prima sezione (le poesie inedite), Lontane primavere, in cui emerge, invece, la melancolia per il tempus fugiens. Non casualmente lo zefiro, vessillifero della stagione primaverile, è legato alla caduta in terra di petali floreali, movimento dolce quanto si voglia, ma pur sempre riconducibile alla transitorietà dell’esistere. Segue la riproposizione di testi già editi, che continuano l’indagine sul “mistero della sera” nella sua connessione con quello esistenziale, scavano nella rimembranza (si pensi a “Primavera 1943”, con la peculiare funzione del canto dei soldati), esaltano l’apula bellezza dei “campi sboccianti di vita”, per poi tornare ad avvolgersi su immagini cosmiche e chiudere, in Crepuscolo, con il contrasto tra le “titaniche fiamme” e le “ombre silenziose”. È una poesia dal ritmo sommesso quella di Giovanni Salvemini. Il poeta molfettese si connota per il dettato piano, sostanzialmente alieno da bellurie letteraria e tutto proteso verso la chiarezza della situazione comunicativa, nel fitto dialogo con il lettore o gli interlocutori prescelti nei singoli testi. Salvemini non urla, sussurra, intessendo i suoi versi intorno ad alcuni motivi ricorrenti. La contemplazione del passaggio, che può essere ispirata al ritmo stagionale o scandita dalle luci del dì o dalle ombre della sera, è il più delle volte l’occasione genetica che fa scaturire l’auscultazione interiore. Dall’io il passo successivo è l’estensione all’universale, perché quel senso d’ali che l’io lirico alimenta finisce con l’essere condiviso dal lettore. Se talora compare la luce abbagliante, molto frequente è anche la velatura perlacea, che fa apparire tutto più tenue o sfumato e desta nel lettore un senso di tenerezza. Chi legge, infatti, finisce col sentirsi compartecipe del desiderio che l’amore possa ancora inebriarci di luce e che nuove emozioni possano scaturire anche laddove la malinconia ci farebbe vedere l’occaso. La voce del poeta non di rado si scioglie in preghiera e sempre inneggia alla bellezza della vita, complice il silenzio arcano della natura, che non sgomenta, ma diviene propizio al volo del cuore. © Riproduzione riservata