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Il federalismo democratico di Vito Donato Epifani. Genesi, caratteristiche, modelli (I parte)
01 febbraio 2009

NAPOLI - 1.2.2009 – Alla luce delle recenti acquisizioni bibliografiche e delle prime ricostruzioni critico-biografiche, la storiografia sul federalismo nella cultura politica meridionale si arricchisce di un'altra centrale figura di riferimento: Vito Donato Epifani (foto). La scoperta del contributo offerto dall'economista e politico pugliese (San Vito dei Normanni) alla formulazione di una proposta organica ed articolata di radicale riforma dell'assetto politico-istituzionale italiano in senso repubblicano, democratico e federale deve indurre gli studiosi a rivedere datazioni e prospettive ideologico-politiche relative agli inizi del dibattito federalista nell'ambito della cultura politica meridionale postunitaria. Una tradizione di pensiero, questa, che – articolata al proprio interno, per forme, declinazioni istituzionali, prospettive ideologiche e finalità politiche –, solo nell'ultimo decennio circa ha cominciato a ricevere un'adeguata attenzione storiografica. Se sino ad oggi si è sostenuto che nel Mezzogiorno tra i primi a parlare di federalismo a partire da una prospettiva antropologico-razziale fu Alfredo Niceforo nel 1897, sulla base di un prima ricognizione critica dell'opera di Epifani si deve retrodatare l'inizio del dibattito federalista nella cultura politica meridionale postunitaria al 1870 e collocarlo nell'ambito della prospettiva repubblicana e democratica, propria della “scuola positiva” di Carlo Cattaneo, a cui successivamente si richiamarono esplicitamente Napoleone Colajanni e Gaetano Salvemini. Una prima ricognizione critica, si è detto, in quanto la memoria ed il contributo offerto dall'intellettuale pugliese al dibattito politico è stato oggetto di una vera e propria rimozione politico-culturale, che per oltre un secolo ne ha cancellato letteralmente la memoria. Successivamente alle ricerche pionieristiche e meritorie che hanno cominciato a ricostruirne il profilo biografico e a delinearne la portata teorica, necessita ora contestualizzare sempre più a fondo l'opera e la figura di Epifani, onde coglierne criticamente, in relazione alle temperie politico-culturale del suo tempo, il profilo specifico rispetto ad altre figure e ad altre correnti di pensiero con le quali il pugliese fu in contatto o a cui si richiamò direttamente o indirettamente. All'indomani della proclamazione del Regno d'Italia (1861) e pochi mesi prima della presa di Roma (1870), il ventiduenne Vito Donato Epifani dà alle stampe un breve ma denso e significativo scritto Programma per la democrazia italiana, seguito nel 1872 dalla pubblicazione del Sistema di Economia politica. Entrambe le opere si collocano nel periodo napoletano di Epifani, che, proprio in quegli anni di stretto contatto con gli ambienti di cultura engagée, ha l'opportunità di elaborare una proposta di riassetto radicale delle istituzioni italiane in senso repubblicano, democratico e federale. Pur nutrendo un senso vivo della patria alimentato dalla consapevolezza della sua plurisecolare decadenza politica, Epifani intende evidenziare i limiti e le distorsioni del processo di unificazione nazionale. Contrariamente al Mazzini, di cui ammira la tensione etico-politica, il giovane intellettuale pugliese rifugge da impostazioni idealistiche o speculative per attestarsi sull'analisi critica della realtà fattuale, sull'osservazione partecipata dei processi storici, quali effettivamente si sono svolti o si vanno svolgendo dinanzi al suo sguardo indagatore. La nostra rivoluzione – osserva Epifani –, la vera unità non è ancora fatta. Mazzini volle farsene genio ma poetò. […] Mazzini non faceva ancora che un lavoro di demolizione, e l'oggetto delle sue mire non era il combattere la monarchia italiana, ma la monarchia. Proprio per il carattere astratto ed idealistico della sua impostazione, Mazzini finì con il subordinare la libertà d'Italia alla sua indipendenza, rendendo subalterno il progetto di una libera Repubblica unitaria all'accentramento sabaudo. Di contro, il giovane intellettuale di formazione giuridico-economica fa sua la lezione del positivismo storicistico, sostenendo l'esigenza di uno studio della realtà fattuale che sappia contemperare il rigore scientifico per l'analisi sincronica dei bisogni socio-economici, con la profondità della ricerca storica per l'individuazioni diacronica delle tendenze evolutive, sulla cui base formulare delle proposte di innovazione sociale, economica e politica praticabili e non meramente utopistiche. Da ciò il suo scetticismo ed agnosticismo in ambito filosofico e religioso di contro alla sua fiducia nel metodo positivo. La filosofia – osserva Epifani – si sforza di risolvere problemi di impossibile soluzione: non v'ha dubbio che ogni uomo deve domandare a se stesso: D'onde vengo, donde vado, che sono io e la natura che mi circonda; ma è oramai noto allo scienziato che nulla si può rispondere di strettamente logico a queste domande, fuorché io so di non potere sapere. La filosofia ha reso buoni servigi all'umanità? E' una domanda inutile dopo quanto abbiamo detto. Il filosofo ha cercato, se non ha trovato la risposta dei problemi che precipuamente l'interessavano ha sempre surrogato un errore meno traviale, ed ha condotto il pensiero al suo vero termine quando ha dichiarato la sua impotenza in simili vertenze. La filosofia adunque rese grandi servigi all'umanità quando giovandosi di tutte le scoperte delle scienze speciali s'allargava la sfera appellando Dio alla periferia sempre crescente dell'ideale. Ma per non avere mai abbandonato quel linguaggio misterioso, quel sistematico procedere che la fa spesso camminare più lento della coscienza pubblica, quel superbo desiderio di abbracciar l'infinito con infinite parole, è d'uopo che questa scienza ceda il posto alla scienza la quale studiando i bisogni e le tendenze dell'umanità tenta di soddisfarli quanto più possa. Sulla base di queste posizioni teoriche, il giovane pugliese riprende e sviluppa gli apporti dei fisiocratici per concepire l'economia politica come scienza del benessere attraverso l'individuazione, il soddisfacimento e la creazione di nuovi bisogni. Ed è sempre a partire da questa base teorica, che caratterizza la cultura engagée del secondo Ottocento, che si intreccia con le sue posizioni repubblicane in ambito politico, che Epifani cerca di rilanciare nel variegato campo democratico la proposta di una Repubblica democratica federale. Innanzitutto, il giovane pugliese evidenzia come il processo di unificazione si sia risolto nella piemontizzazione, ossia nei “[…] monopoli che oggi una regione opera sulle altre in tutti i rami d'amministrazione, dividendo con quelle i pesi e non i privilegi”. Monopoli, osserva Epifani, che hanno spezzato “[…] il filo della nostra storia, imponendoci istituzioni copiate vergognosamente da lontani paesi, dissimili dalla nostra civiltà”. A sua volta l'accentramento burocratico-amministrativo ha favorito le èlites al potere, rafforzando con la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici i latifondi nel Mezzogiorno e marginalizzando la funzione economica di città come Napoli e Brindisi. Inoltre, incalza Epifani, l'accentramento ha imposto a tutte le regioni del Paese un sistema tributario fortemente articolato e capillare, che grava sulla produzione della ricchezza e sul lavoro senza che ci siano i dovuti ritorni in termini di utilità economiche. “La tassa insomma, conclude Epifani, così come oggi è, è un gravame ingiusto e sciocco; non menando ad altro che a creare tanti inerti, i quali si serrano intorno al filo d'erba sollevato dalle lagrime e dai sudori del popolo, come una miriade di formiche intorno ad un briciolo di pane”. Alla vessazione di un sistema tributario accentrato e fortemente sperequato in favore di un'esigua minoranza di privilegiati, la piemontizzazione ha aggiunto anche l'estensione a tutte le regioni italiane della leva obbligatoria e dell'esercito stanziale, che viene utilizzato ai soli fini repressivi nei confronti dei movimenti di protesta popolari. “E' la paura – sostiene Epifani – che consiglia quei signori a farsi intorno un forte quadrato di baionette. La baionetta è la ragione del governo impopolare: ad ogni parola d'indignazione, ad ogni esclamazione libera quella risponde immediatamente; la tassa è resa odiosa, il popolo si stringe al muro, non può pagare; il governo lo inchioda con la baionetta: il popolo vede che si baratta l'opinione pubblica, si sommuove; il governo, confonde la voce del popolo con quella del cannone”. Salvatore Lucchese
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