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Guglielmo Minervini: dopo 20 anni Molfetta ha di nuovo la febbre alta
15 luglio 2012

In un quadro di desolanti contiguità tra malaffare e politica, alle ore 14 e 30 minuti del 7 luglio del 1992 questa città pigra nel cogliere i propri conflitti e ancor più tarda ad affrontarli, viene tramortita brutalmente dalla realtà. L’omicidio del sindaco Giovanni Carnicella ha un chiaro significato premonitore delle dinamiche in atto ormai da tempo. Ovviamente per chi voglia guardare in faccia i fenomeni sociali e non ancora una volta nascondersi dietro gli alibi consolatori del raptus e del mostro. Ancora una volta don Tonino è solo. Scomodamente solo ad affermare che quel colpo di fucile a canne mozze ha riaperto traumaticamente «il discorso sul malessere della città. Un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale poniamo fatica a prendere atto, forse non troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibile detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale. È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina nell’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo. Quello aperto da un fucile a canne mozze è il discorso sulla rimonta dell’idolo del profitto che, alla borsa dei valori, stravince perfino sulla sacralità». L’omicidio del sindaco segna una svolta, annuncia un deciso salto di qualità. Pezzi di marginalità si organizzano attorno al filone estremamente redditizio del narcotraffico. È dopo l’emigrazione e l’imbarco, la nuova disgregante spugna in cui viene assorbita la domanda di integrazione e di occupazione che sfugge alla città senza ormai terra né mare. La competenza criminale cresce rapidamente, il territorio diviene uno spazio che adeguatamente controllato può piegarsi ai nuovi mercati illeciti. Rimuove la politica, mentre consuma gli ultimi scampoli del festino, finge di non vedere. Nel ‘93, con la morte di don Tonino, la città perde la sua voce dissonante, la sua spina profetica. Ma non passa nemmeno un anno che questo squarcio di ferita si manifesta crudamente. L’operazione giudiziaria “Primavera” dell’aprile del 1994 è sconvolgente non tanto per le modalità eclatanti con cui vengono tratti in arresto interi nuclei famigliari e ben 78 persone, ma per la realtà che mette in luce. I soci di ventura del maledetto concerto a causa del quale il sindaco venne assassinato sono divenuti, in appena due anni, i vertici di un reticolo capillare e strutturato di gruppi che presidiano la città “non soltanto attraverso la attività e la realizzazione criminale ma anche e soprattutto con la vera e propria occupazione dei centri storici, di quella parte della città che più si offre alla considerazione culturale come il vanto di questa cittadina pugliese”. La parte rimossa della città, il suo nucleo storico matrice dei millenari dialogo tra terra e mare, ritorna non come risorsa essenziale per il futuro ma come emergenza grave. Non come polmone dell’economia e dell’identità ma come principale indicatore del degrado e, quindi, sorgente di cronaca nera. Non sarà sufficiente la prima operazione a incalzare la stagione della primavera sulla città e nemmeno la seconda, ancora più vasta e incisiva, giunta alla fine del ‘96, a cancellare (il reset del bancomat lucroso escogitato dal narcotraffico) la pagina criminale della sua storia. Certo è vitale che il contrasto giudiziario sia stato sollecitato nell’espianto chirurgico del cancro, impedendo la sua tentacolare penetrazione nel tessuto sociale sano. Grazie a un ricostruito rapporto di fiducia e a una positiva interazione istituzionale questo è avvenuto. Ma quando la giustizia riesce a risolvere l’ordine pubblico è necessario che la politica, e con essa la comunità intera, abbia il coraggio di affrontare l’ordine sociale, cioè la ricomposizione delle fratture, la riconciliazione con le parti escluse. Altrimenti la legalità resta solo uno slogan, cioè una parola chiave irrealizzabile perché discriminante e inaccessibile ai più deboli. Così scriveva Guglielmo Minervini, sindaco di Molfetta nel 1997 sul suo libro “Mar Comune” (edizioni la meridiana). Con lui, protagonista di una stagione di rinnovamento dopo il crollo dei partiti tradizionali, con il movimento “Il Percorso” e lo slogan “Liberiamo la nostra città”, abbiamo scambiato qualche battuta tra ricordi e realtà attuale, tra speranze e significati politici a distanza di 20 anni, sempre per ristabilire la verità storica su quel drammatico fatto di sangue e capire cosa è cambiato. Quali logiche portarono all’assassinio di Gianni Carnicella? Può un mancato permesso per un concerto, provocare un omicidio? «La città ha preferito custodire una memoria banalizzata della vicenda più grave della sua storia recente. Il concerto negato e poi il raptus costituiscono gli ingredienti di una trama elementare e consolatoria che ha consentito alla città di non scendere nel profondo e non cogliere i nessi tra quell’evento tragico e il suo malessere. In realtà, la storia successiva ci dice che quel concerto non fu opera di un personaggio deviato ma rappresentò il battesimo simbolico con cui la delinquenza locale tentava di compiere il salto di livello, introducendosi nelle più redditizie e sofisticate attività di spaccio. Il concerto come una sorta di festeggiamento per stabilire una patto commerciale e criminale che fece fare a Molfetta un balzo nel buio del narcotraffico. In realtà, il senso vero dell’omicidio di Carnicella lo spiegano i fatti accaduti nei tre anni successivi, fino al 1995 e che nella memoria sono segnate con le due operazioni “Primavera” e “Reset-Bankomat”. Non a caso i protagonisti della pagina nera di quegli anni sono gli stessi che componevano la cordata del concerto». Nel 1997 ha scritto che la politica, dopo l’intervento della magistratura, doveva avere il coraggio di affrontare l’ordine sociale, la ricomposizione delle fratture, la riconciliazione con le parti escluse. Altrimenti la legalità sarebbe rimasta solo uno slogan. Come si è risolta questa ricomposizione? «Non si è risolta. Al contrario, la frattura si è divaricata. Le città legale e illegale scivolano impermeabili, nascondendo le zone d’ombra di contiguità e di contatto. Lo spaccio di quegli anni generò un enorme giro di capitali, molti dei quali si sono riciclati nell’economia legale. Quanti bar, esercizi commerciali e soprattutto quanti suoli del piano regolatore sono stati alimentati da quei soldi sporchi, in molti casi anche di sangue? E quanti professionisti hanno messo le loro competenze a disposizione? E quanti amministratori locali, quanti politici ruspanti si sono fatti finanziare generosamente ed eleggere per tutelare operazioni e affari? Non stiamo parlando solo degli ultimi 20 anni ma anche di oggi. Stiamo parlando di una Molfetta che di fronte alla seduzione dell’arricchimento facile e veloce, anche se sporco, non ha saputo dire di no. Stiamo parlando della perdita degli anticorpi con cui una città si mantiene sana». Lei è stato eletto anche sull’onda emotiva della morte di Carnicella e della scomparsa successiva di don Tonino. Ha cercato di dare una svolta alla politica. Cosa resta 20 anni dopo, una Molfetta peggiore e illegale (forse per colpa degli stessi uomini di allora)? È stato un sacrificio inutile? «Per fermare il degrado non era sufficiente una sola persona, occorreva una risposta forte di tutte le istituzioni, della politica. Carnicella pagò la sua solitudine. La mia elezione rappresentò il bisogno di riprendersi la responsabilità di rispondere insieme a quel degrado. Così accadde: ripristinammo il senso delle regole, il valore della legalità e la forte collaborazione con la magistratura in pochi anni ebbe l’effetto di sradicare chirurgicamente quel cancro che si stava mangiando la città. Oggi quella tensione è stata smarrita. I segni delle istituzioni e della politica che si genuflettono dinanzi alla prepotenza e all’arroganza, che fanno finta di non vedere, che alimentano con le loro scelte illegalità diffuse e anche pericolosi scivolamenti della delinquenza nostrana, si moltiplicano quotidianamente. Gli ambulanti “legalizzati” ne sono la prova: i legami persino diretti tra i protagonisti di oggi e quelli di ieri sono evidenti, stiamo parlando delle stesse famiglie, in alcuni casi degli stessi protagonisti. Quello che colpisce è che invece di trovarsi un’amministrazione che impone regole per rientrare in attività regolari di commercio, si sono trovati un Comune che si è lasciato imporre da loro condizioni e forme. Come dire: le regole valgono solo per i più deboli, per i violenti no. Ecco questo è il precipizio in cui stiamo scivolando: passa il messaggio che sopra le regole c’è la violenza. Come non vedere che Molfetta, per dirla con don Tonino, ha nuovamente la febbre molto alta?».

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