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Giulio Bufo all'Arci: la polifonia della vita nel teatro del minimale
15 marzo 2011

La creatività è il mio nutrimento. Così Giulio Bufo, artista molfettese, ha spiegato a Quindici il suo amore per l’arte e il teatro dopo lo spettacolo «Discorso sull’amore e sull’amicizia», tenutosi nella sede Arci di Molfetta. Un monologo ispirato al testo «I baci rubati» del presbitero e teologo italiano Ermes Ronchi (1947): «un libro che mi ha dato molto, ricevuto da don Ignazio Pansini proprio quando cercavo di dare un senso alla mia vita - ha spiegato Bufo, impegnato anche in laboratori teatrali nella scuole superiori e come operatore sociale per disabili - nonostante io sia ateo, ne sono rimasto aff ascinato anche per la visione diversa che off re del cristianesimo ». Chiave di lettura del monologo, la canzone «Non insegnate ai bambini» di Giorgio Gaber: «non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, non lasciateli mai soli, date fi ducia all’amore, il resto è niente». Per la prima volta Giulio Bufo non ha trattato temi di attualità, come accaduto in altre occasioni, per questo conosciuto a Molfetta come «l’attore dell’estrema sinistra». Anche se ha ripreso dal testo di Ronchi alcune critiche alla chiesa, come il «maschilismo ecclesiastico», la castità e la clausura considerate «scelte quasi folli e contro natura». Amore e amicizia. «La vita non è statica, ma estatica, la vita non è etica, ma estetica»: punto di partenza del monologo, una rifl essione sulla vita aff ettiva, che può essere negata ma non eliminata, perché «se non amiamo, non viviamo ». Un discorso intimistico già dalle prime battute, «molto delicato, nato da una profonda rifl essione su me stesso», ha dichiarato l’attore molfettese. Amore e amicizia, i caratteri della «polifonia della vita», intesa da Giulio Bufo come «proliferazione degli aff etti», opposta alla monotonia, la noia di vivere. Reiterata la domanda «l’amicizia è un fi ne o un mezzo?»: amicizia come reciprocità, rivelazione dell’innocenza, dell’eterna infanzia facile al sorriso, al bacio, al gioco, come «un invito alla vita». Un punto d’arrivo del cammino di maturità, la risposta di Bufo. Simile all’amicizia, l’amore «non si merita, si accoglie», non è solo una vicenda umana, ma «chiede eternità e interpella il perché dell’esistenza ». Repentino il riferimento alla vicenda di Adamo, alla sua solitudine colmata dalla presenza di Eva, non da Dio: la solitudine è la prima espressione del male, precedente al peccato originale, «più originale del peccato originale ». Lievitano le parole, dirompe la fi gura scenica di Giulio Bufo: «l’essere umano nasce aff amato, è fame d’amore, fame d’essere amato». Chi è solo dubita di se stesso, ma l’amore sopprime la solitudine, uccide il male di vivere: è la «certezza che esistiamo, che sappiamo amare, che per qualcuno contiamo qualcosa », l’accettazione di se stessi e delle debolezze dell’altro perché «una vita non vissuta è quanto di più orribile ci possa accadere». Componenti essenziali sono eros, «povertà alla ricerca della ricchezza di un altro», e agape, «ricchezza per donare qualcosa all’altro». Il teatro del minimale. Una scenografi a nuda, come quella dello spettacolo «E se mi diranno … Tenco» con cui Bufo ha girato l’Italia (Roma, Savona, Bologna, Albanella). Puntare all’essenzialità, «non mi piace vedere in scena scenografi e inutili»: un teatro povero, senza quelle scenografi e sovrastanti e inutili che deconcentrano lo spettatore. Senso del minimale e vuoto apparente, colmato non solo dal silenzio del pubblico e dalla corporalità di Giulio Bufo, ma anche dalle corde della chitarra classica di Vito Vilardi, uno dei migliori interpreti regionali, nei brani «Amore che viene amore che vai» di Fabrizio de Andrè e «Non insegnate ai bambini» di Giorgio Gaber. Vilardi il centro della scena, Bufo la sua circonferenza, intreccio armonioso tra voce e chitarra: il suo girare intorno, come il continuo ticchettare dell’orologio, si mescola a un abile gioco di parole, a una serie di domande «che non hanno necessariamente una risposta - ha aggiunto Bufo - perché la risposta c’è e non c’è». Un’arte polisemica, con cui ogni singolo spettatore può dare l’interpretazione che vuole: «essendo tratto da un testo, ogni domanda ha una sua risposta, quella del Ronchi, che io condivido - ha continuato - ognuno poi può accettarla o meno». Nessun contatto con il pubblico «che è invitato a vedere e a sentire», senza nessun coinvolgimento fi sico: massimo silenzio, sulle orme del regista dell’avanguardia teatrale Jerzy Grotowskj (1933-1999), perché «il teatro è l’incontro tra attore e spettatore, tutto il resto costumi, scene e musiche possono anche non esserci». Per la prossima stagione, Giulio Bufo, che ha collaborato con Caparezza, Miloud Oukli, Domenico de Ceglia e Salvatore Marci, ha anticipato a Quindici l’allestimento di uno spettacolo su Peppino Impastato.

Autore: Marcello la Forgia
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