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Gaetano Salvemini e Leonardo Mezzina tra il 1897 e il 1898 a Molfetta
15 maggio 2005

Nel 1897, prima di sposare a Firenze (21 ottobre) Maria Minervini e poi trasferirsi a insegnare a Faenza, Gaetano Salvemini(nella foto) fu a Molfetta per occuparsi di alcuni affari di famiglia, uniti alla dote della madre Emanuela Turtur, curati dall'avv. Vincenzo Tofano di Trani, al quale egli scrisse il 31 agosto 1897, appunto da Molfetta, la seguente cartolina postale(inedita, gentilmente concessa dall'amico Vittorio Valente): “Pregiatissimo Sig. Avvocato, Doman l'altro o al più venerdì, prossimo verrà a Trani la mamma e vi porterà le lire 9.40 da voi spese per noi. Porterà anche i documenti necessari al trasporto della dote. Vi preghiamo di dirci se fra questi documenti dovrà esserci la nostra procura per voi, oppure se basterà la nostra domanda diretta ai giudici, da essere poi presentata per mezzo vostro. Vi saremo grati se vi degnaste di risponderci prontamente. Dev.mo Gaetano Salvemini”. A Molfetta egli si interessò anche, come collaboratore del circolo socialista (ubicato al Borgo), a far venire in città Andrea Costa per un comizio contro il domicilio coatto, in ciò sollecitato dal presidente e fondatore di quel circolo, rag. Leonardo Mezzina (n. a Molfetta il 2 luglio 1855). Per questo Salvemini scrisse il 15 agosto a Filippo Tarati, il quale lo mise in corrispondenza diretta con Andrea Costa, per concordare personalmente le modalità del suo comizio (v. "Carteggio 1894-1902” di Salvemini). L'amministrazione repubblicana al governo della città non permise però che questo fosse tenuto pubblicamente; e solo privatamente, il 17 ottobre successivo, il comizio fu tenuto “in un ampio atrio di un palazzo cortesemente offerto per togliere d'imbarazzo gli amici e gli ammiratori del deputato di Imola”, come ricorda Gioacchino Poli (“Corriere delle Puglie”, 21 gennaio 1910) in occasione della morte del Costa. Il 23 marzo 1898, memore di questo interessamento di Salvemini, Leonardo Mezzina scriveva al suo “Caro Gaetano: «La nostra sezione t'incarica, a mio mezzo, di scrivere a Filippo Tarati, che tanto ti stima e cha per te l'altra volta fece venire qui Andrea Costa, perché a nome di questo partito socialista, facesse invito ad Enrico Ferri di recarsi in questo comune in una delle domeniche del p. v. aprile —non mai prima di Pasqua a commemorare il cinquantennio della pubblicazione del "manifesto de' comunisti" e la morte di Carlo Marx. Perché tu possa assumere impegno di far venire qui il Ferri, immancabilmente, devi sapere che questa radicanaglia che in occasione della venuta di Costa fu più reazionaria dello stesso Torquemada (il domenicano simbolo di metodi inquisitori di repressione) calpestando e rinnegando quei principi di libertà, nel cui nome giunse ad afferrare il potere municipale, or vuole commemorare nel teatro comunale (che era attiguo al Municipio) Felice Cavallotti (ucciso il 6 marzo a Roma, in un duello, dal deputato Ferruccio Macola), per rifarsi quell'aureola di popolarità, ch'è tanto necessaria per ridare la scalata al Municipio nelle prossime future elezioni”. Volendo fare anche “noi una commemorazione di partito nello stesso teatro” - scrive ancora il Mezzina - “vogliamo costringere questi ipocriti o a negarcelo discreditandoli presso il pubblico che stigmatizzerebbe il fatto odioso d'una commemorazione de' radicali permessa, e di quella de' socialisti cretinamente vietata; o a concedercelo - il che forse sarà - e in questo caso noi troveremo il modo di far capire a molti illusi che i soli radicali onesti e veramente tali sono degni di fare una commemorazione di Cavallotti e che questa marmaglia - capace di tutto - ne sfrutterebbe la cara memoria, pur di rimanere al potere, dove fa tanto comodamente -connivente l'autorità - i propri interessi” (v. "Carteggio” di Salvemini cit.). Di questa commemorazione voluta dal Mezzina, come anche della conferenza richiesta a Enrico Ferri, non si conoscono le notizie, che si hanno invece (dal “Corriere delle Puglie” del 19 aprile 1898) per la commemorazione del Cavallotti voluta dall'amministrazione comunale, che fu tenuta dall'on. Luigi De Andreis venuto a Molfetta nel mese di aprile a collaudare l'impianto elettrico della città (su cui v. quanto scrive Marco de Santis in “Quindici” di febbraio e marzo 1998). Per l'occasione fu lavorato un busto in creta del Cavallotti dal giovane scultore concittadino (ma nativo di Zollino, Lecce) Giacomo Castore, discepolo di Filippo Cifariello (entrambi presenti allora con alcune opere alla Esposizione Nazionale di Torino nel Cinquantenario dello Statuto). Il promettente artista morirà l'anno dopo ad appena 25 anni, lasciando alcuni suoi lavori nelle case di Saverio Calò (una bellissima testa di Cristo), di Giacomo Fontana (una statua dal vero “Il picciotto”) e dell'avv. Bartolomeo Capocchiani (v. “Corriere delle Puglie”, 2 ottobre 1899). A non far tenere forse, questa volta, la commemorazione e la conferenza volute dal Mezzina fu probabilmente la grave situazione sanitaria che ci fu in quel mese in città, dove il 14 aprile si ammalò dello stesso male (tifo), al quale aveva strappato numerose vittime, finanche il medico condotto dott. Nicola Picca (fratello degli avvocati Giuseppe e Francesco), che, nonostante le premurose cure degli amici dottori Graziano Poli, Tommaso Rana e Pasquale Pansini, morirà la mattina del 29 successivo, all'età di 39 anni (v. "in Memoria del Dott. Nicola Picca. 29 Aprile 1898”, consultabile nella Biblioteca comunale “G. Panunzio”), seguìto, nello spazio di un anno, da altri due giovani dottori, Leonardo Spagnoletti e Mauro Boccassini, morti anch'essi di tifo “nell'adempimento del proprio dovere” ("Corriere delle Puglie”, 18 maggio 1899). Inoltre, a metà aprile 1898 era infermo di grave malattia anche Leonardo Mezzina, il quale si trasferì perciò in campagna, dove si trovò quando, il 1° maggio, scoppiarono in città i tumulti per il caropane, che causarono purtroppo morti e feriti (su cui v. anche in “Quindici” del maggio 1998 il ricordo fattone da Marco de Santis). “Appena successi questi fatti” - scrive Alessandro Guidati a Salvemini, il 16 agosto successivo - i repubblicani al governo della città “sguinzagliarono i loro moretti” per mettere in giro le voci che a causare i tumulti erano stati i socialisti. Appunto perché “di colore socialista” furono arrestati, tra gli altri, in quei giorni 9 accusati di istigazione di quei moti. Tra questi vi furono lo stesso Guidati e Leonardo Mezzina, nella cui casa in via via S. Cosmo, 10 (dove egli viveva con la mamma Nicola Cinque, ved. di Vito Mezzina (qualificato in vita: mastro centimoli, mugnaio, granista) e con il fratello minore Corrado, padre di tre figli, come risulta dallo “Stato delle anime della Parrocchia Cattedrale”, in Archivio Diocesano, Molfetta) “la polizia sequestrò tutti i documenti riguardanti la condotta politica dei caporioni repubblicani: documenti che nessuno vide più”, scrive Salvemini nel 1904 (v. “Il ministro della mala vita”, Ed. Feltrinelli, p. 62). Dallo stesso Salvemini sappiamo anche, che fu chiuso il circolo socialista “dopo averne sequestrato le carte tra le quali ci troveranno certo dentro me”, come egli scrive a Carlo Placci il 27 maggio 1898, da Faenza. Quando, il 15 giugno successivo, si trattò la causa di quei moti presso il Tribunale di Trani, "quel giorno nella gabbia degli imputati Leonardo Mezzina apparve solo per un momento per l'interrogatorio, trascinandosi sotto il braccio di un fratello e dell'avvocato difensore Raffaele Cotugno. Sul suo volto più di asceta che di uomo di azione manifestava l'impronta delle sofferenze della malattia (leucemia) che lo travagliava” (“Il processo di Molfetta”in Corriere delle Puglie, 16 giugno 1898). All'interrogatorio degli imputati, Alessandro Guidati negò l'accusa di essersi frammisto ai moti, perché occupato al suo lavoro di barbiere. Leonardo Mezzina, dal canto suo, negò le accuse di istigazione e di aver diretto dalla campagna il movimento del 10 maggio, avendo invece acerbamente stigmatizzato i fatti avvenuti. Egli negò altresì di aver minacciato i carabinieri che erano andati ad arrestarlo, credendo soltanto superfluo un numero esagerato di agenti per lui solo e così malandato, nè che si fosse trasceso in minacce. ”Sarei stato un pazzo” - egli disse, domandando poi di essere ricondotto in carcere, perché così infiacchito, affidandosi al suo avvocato difensore. Il giorno dopo, a discarico del Mezzina deposero, tra gli altri, Leopoldo Peruzzi e Gennaro Ciccolella, affermando che egli dal 16 aprile era in campagna e che per quanto socialista non era affatto uomo da concepire violenze. Egli era ritenuto anche un impiegato ed un cittadino onesto, come testimoniò l'on. Giuseppe Panunzio, il quale ricordò anche che la sua Amministrazione comunale fu quella che gli aumentò lo stipendio qual ragioniere del Municipio. Anche l'avv. Giuseppe Picca ebbe a dire del Mezzina che personificava in lui l'integrità dell'animo ("Corriere delle Puglie”, 17 giugno 1898). Da quel processo tutti gli imputati socialisti uscirono assolti, anche Leonardo Mezzina, che però rimase “vittima della reazione”, morendo di malattia il 25 giugno 1898 (ringrazio l'amico ins. Luigi Bisceglie per i dati anagrafici ricavati dai registri comunali). I suoi funerali - ricorda Michele Capozza, che vi prese parte - “si svolsero fra una selva di baionette. Al cimitero - egli scrive da Bitonto in una lettera del dic. 1955 (fotoriprodotta in “Atti delle Giornate salveminiane”, Molfetta, ottobre 1988) - mentre la bara fu deposta, l'avv. Nicola Altamura depose su di essa un fiore bianco e disse: Questo fiore bianco deposto sulla bara di chi è stato ucciso legalmente, possa apportar "pace". Accorse poi il Commissario di pubblica sicurezza, ma Altamura aveva concluso”. Dopo la morte del Mezzina, il circolo socialista di Molfetta fu riorganizzato da Alessandro Guidati, il quale così informava Salvemini il 16 agosto 1898: "Appena quell'amico anzi fratello carissimo si spense, vittima della reazione, si pensò di dare al nuovo circolo, quando sarà permesso di ricostituirlo, il suo nome, e questo lo facciamo - egli scrive - in omaggio alle sue virtù di cittadino e di uomo di parte, in omaggio a lui, che ci fu maestro ed esempio di carattere, di onestà, di disinteresse, e anche perché il suo nome rievochi in noi la sua figura austera e nobile di lottatore e di uomo di cuore, e ci sia di monito nei momenti di debolezza, in cui le bizze personali, le piccole ambizioni intralciassero l'opera sua, facendola riuscire vana e indecorosa”. Pasquale Minervini (Centro Studi Molfettesi)
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