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Franco d'Ingeo, addio a un vero artista
15 aprile 2011

Il 17 marzo 2011, mentre lavorava ad alcuni disegni, il celebre pittore molfettese Franco d’Ingeo si è spento, all’età di 90 anni, a causa di un attacco di cuore. Molfetta saluta così uno dei suoi più illustri fi gli. Era nato nel 1921, proprio il giorno della Madonna dei Martiri, un giorno festoso e foriero di letizia per ogni molfettese. Con la sua città ha mantenuto negli anni un legame profondo, suggellato, all’inizio del nuovo millennio, da una prestigiosa donazione alla cittadinanza di ben venticinque sue opere, esposte nella “Sala Donazione Franco d’Ingeo” presso la locale Fabbrica di San Domenico. L’inveterato attaccamento alle radici non ne ha fatto, tuttavia, un artista provinciale e attardato; si ricordano i periodi dal maestro trascorsi a Roma e a Parigi, dov’egli ha potuto conoscere Orfeo Tamburi e, soprattutto, George Braque, che gli ha trasmesso l’amore per i collage e i papiers collés. Un pittore, dunque, di respiro internazionale, che ha saputo trarre ispirazione dal contatto con artisti importanti (non bisogna dimenticare neppure il grande Franco Gentilini), ma ha costantemente alimentato in sé una viva attitudine alla sperimentazione, al punto da non poter essere incardinato in facili e approssimative classifi cazioni elaborate sulla scorta delle mode e degli stili. Ha coltivato l’insegnamento negli istituti di istruzione secondaria, in particolar modo presso il Liceo Artistico “Giuseppe De Nittis” di Bari, dov’è stato ordinario di “Figura disegnata” sino alla pensione. Numerosi critici si sono interessati alla sua produzione, scorgendo nelle sue opere “un sentimento solitario ma partecipante della vita” e una “natura poetica” (Marcello Venturoli), quasi che nell’apparente ordinarietà di teorie di muretti a secco vibrasse “il dolore della pietra” (Vittore Fiore). Numerosi i riconoscimenti da d’Ingeo ottenuti a livello internazionale, tra cui il Premio acquisto Monopolio di Stato e il Premio Pubblica Istruzione, conseguiti nella capitale negli anni Sessanta. Ha partecipato a numerose collettive a livello nazionale e allestito importanti personali lungo tutta la penisola. La sua ispirazione ha percorso non pochi rivoli. Una delle più felici sue declinazioni è senz’altro ravvisabile nella ritrattistica, dagli espressivi autoritratti ai numerosi volti femminili, magari innestati su sfondi geometrizzanti, come la magnetica Figura con cagnolino del 1959. Siano donne pensose, immortalate nel gesto di fumare una sigaretta, o personaggi celebri della storia molfettese, quali il maestro Muti e il compianto Mons. Bello, i protagonisti delle sue felici incursioni in tale genere sono oggetto di un’attenzione al dettaglio non disgiunta dalla volontà di racchiudere su tela un’essenza, il profumo d’un animo. Uno dei periodi più importanti della sua attività è senz’altro quello delle sabbie, il cui uso si vuole, per tradizione, suggerito al nostro artista da Franco Gentilini (1909-1981). La tela diviene così punto di raccordo di più inserti materici, con una vigorosa tensione all’astrazione che, nell’ultimo periodo d’attività dell’artista, produrrà eff etti di viva suggestione. Antico e moderno si mescolano senza soluzione di continuità e così alla corda/spirale dell’Edilizia (1965), che sembra incarnare compiutamente l’“uroboro” progresso, fanno da contrappunto mosaici di pietruzze che ammiccano a una tradizione sapientemente reinventata. Una sezione cospicua della sua produzione è rappresentata dall’ipnoticamente geometrica evocazione del paesaggio pugliese, con l’ossessiva riproposizione di muretti a secco e, più in generale, dell’elemento pietra. Sabino d’Acunto ne ha fi nemente evidenziato la connessione con i più remotamente ancestrali vissuti del Sud, nel loro rammentare quasi “segni di civiltà megalitiche”. È questa la sensazione che si riceve osservando un aff astellarsi di Pietre in segheria (1959), trionfo di luminosità e armonia laddove per defi nizione non ci si attenderebbero barlumi di poesia. È invece lirismo allo stato puro quello che si sprigiona da queste come da un’attesa di massi sulla spiaggia o da una solitudine di barche ormeggiate su un mare ora di piombo (come Don Tonino defi nì il nostro mare nella poesia La lampara) ora di vivido argento. Nelle composizioni geometriche di d’Ingeo, simili a tratti ad architetture petrose che si incastonano le une nelle altre, sembra insita l’idea che anche il cosmo rifl etta un suo misterioso ordine, racchiuso nell’infi nitamente piccolo come nel macroscopico. Le Case in via Margutta (1959) divengono così fari di luce che rischiarano un’aura cupa, quasi gravida di pioggia come di pianto. E in un superbo Tronco d’olivo del 1974 sembrano racchiusi il trionfo dell’eternità e il maestoso mistero del dolore. Quel mistero che rivive in un’originalissima crocifi ssione all’insegna della smaterializzazione: il legno è scomparso insieme alle insegne del calvario. L’ombra del Cristo si proietta sulla parete nebulosa come azzurrina luce; volutamente negletti i tratti del fi glio dell’uomo, forse proprio perché in lui potrebbe riconoscersi un qualsiasi nato da donna. L’ultimo respiro pare dischiudere una nuova, misteriosa dimensione, in cui anche la morte si tramuta in danza.

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