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Federalismo fiscale, tutti i rischi per il Sud. Una legge dai possibili effetti perversi per il Mezzogiorno
15 dicembre 2009

È giunto il momento di gettare le fondamenta per un nuovo Welfare che, per garantire pari opportunità e diritti sostenibili, si avvalga, in una logica di piena sussidiarietà, del contributo di soggetti responsabilmente attivi […] capaci di essere utili a sé e agli altri (Libro Verde, 2009). Un Welfare così definito si ritiene possa essere garantito dalla riforma sul federalismo fiscale: ma si tratta di una grande panzana o uno strumento amministrativo utile per il progresso del Paese? Questa è stata la domanda più frequente tra gli italiani non appena, il 22 gennaio 2009, il Senato ha approvato il disegno di legge A.S. 11171 sul federalismo fiscale: nonostante l’informazione, per altro lacunosa ed insufficiente, le perplessità e l’ignoranza della gente restano intatte ancora oggi. Durante la conferenza Il federalismo fiscale (tenutasi nel febbraio scorso) il sindaco Antonio Azzollini, tracciate le linee guida della riforma (autonomia gestionale, potenziamento dell’efficacia e dell’efficacia delle Regioni, redistribuzione dei tributi tra Stato e Regione, perequazione infrastrutturale, patto di convergenza), regalò una massima degna di un grande intellettuale: «Nessuna legge è buona o cattiva, tutto dipende dai protagonisti». Anche l’avv. Mino Salvemini, Capogruppo del Pd, censì alcune motivazioni fondamentali del federalismo fiscale nell’incontro sul tema Il federalismo e l’Italia, le questioni aperte (febbraio 2009): motivazioni politiche, inefficienza dello stato centralista, processo di integrazione europea, necessità di interrompere il presidenzialismo, fallimento delle politiche di riequilibrio territoriale, moltiplicazione dei centri decisionali, mancato trasferimento delle competenze dopo la riforma del 2001. Quanto dibattuto non basta. Per definizione, il federalismo è l’associazione di più enti territoriali (Regioni) che delegano ad un ente gerarchicamente superiore o sovranazionale (Stato) funzioni, competenze e poteri, rinunciando ad una parte della propria autonomia. In Italia si applica il principio inverso, la devoluzione, con cui lo Stato rinuncia ad una parte delle sue competenze, attribuite alle Regioni, in base l’art. 119 della Costituzione, ma non contestualmente all’art. 120/2001, col pericolo di lacerare l’unità politico-giuridica dello stato unitario (gli art.119-120 nel 1 L’esame in prima lettura del disegno di legge A.S. 1117 da parte del Senato, iniziato il 29 ottobre 2008, si è concluso il 22 gennaio 2009, all’esito di 40 giornate di lavoro. Trasmesso alla Camera il 23 gennaio, il testo A.C. 2105 è stato approvato il 24 marzo successivo, dopo un esame durato 81 sessioni. L’ultimo passaggio ha impegnato il Senato per 10 giorni ulteriori: il 29 aprile l’approvazione in via definitiva della riforma del federalismo fiscale con la legge n. 42/2009 recante Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione. box). Si tratta del rovesciamento della cosiddetta piramide residuale, in cui le competenze non promanano a cascata dallo Stato verso gli enti inferiori, ma da questi verso lo Stato. LE PRINCIPALI NOVITÀ Una delle prime novità è la perequazione infrastrutturale, il cui scopo non è conferire maggiore funzionalità ed oggettività ai finanziamenti, impedendo la dispersione dei fondi europei, come prospettato dal sindaco Azzollini, ma garantire l’equità e il riequilibrio tra la Sardegna e le altre regioni italiane: questo consentirà ai cittadini e alle imprese isolane di avere pari condizioni di produzione e di trasporto. L’autonomia di entrata e di spesa per le Regioni implica la razionale distribuzione dei tributi, mediante il finanziamento integrale di tutte le funzioni pubbliche, la leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, il passaggio a costi standard per le funzioni fondamentali, l’armonizzazione di tutti i bilanci pubblici. Secondo quanto assicurato dal Sindaco, le spese dei livelli essenziali della Regione (sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporto pubblico) saranno colmate dallo Stato secondo i costi standard (le spese superiori ai costi standard dovranno essere coperte dalla Regione), mentre i livelli nonessenziali cadranno sui bilanci regionali. In realtà, la questione è più sottile: il finanziamento integrale a costi standard dei livelli essenziali dovrà essere garantito dalla Regione, che potrà contare su Irap, tributi regionali, riserva di aliquota o addizionale sull’Irpef e compartecipazione regionale all’Iva, mentre per le spese superiori interverrà il fondo perequativo. Le Provincie ed i Comuni potranno includere le imposizioni legate al trasporto su gomma, la compartecipazione al tributo erariale, le tasse di scopo, la tassazione immobiliare (esclusa l’Ici) e la compartecipazione all’Irpef e all’Iva. Altre novità, sono il patto di convergenza, che provvederà alla riduzione del gap tra le regioni più sviluppate e quello meno avanzate nel giro di 5 anni; premi (quote di tributi erariali) per le amministrazioni virtuose e sanzioni (l’ineleggibilità) per quelle meno virtuose; clausole di salvaguardia, ovvero un tetto massimo per la pressione fiscale, assicurando che il livello del prelievo non aumenti nella fase transitoria. MENO TASSE E PIÙ SERVIZI O ASIMMETRIE E AUMENTO DELLE SPESE? «Un fisco perequato e tasse minori sono gli obiettivi che non bisogna tralasciare»: così si è espresso Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, aprendo l’assemblea annuale della confederazione, lo scorso 24 giugno. «Corretto, nell’ambito della delega per il federalismo fiscale, il superamento del criterio della spesa storica e l’adozione del metodo dei costi standard»: ma, ancor più importante, sarà mantenere la tassazione sulla base del reddito effettivo e non potenziale e rivedere alcuni aspetti penalizzanti della disciplina Ires, come i limiti posti alla deducibilità degli interessi passivi. Senza omettere il progressivo superamento dell’Irap, da cui trarrebbero van-taggio imprese e lavoratori. Secondo quanto emerge da uno studio della CGIA di Mestre, i comuni meridionali esigono maggiori risorse dallo Stato per la ridotta autonomia finanziaria e le alte spese, ma la futura autonomia comunale consentirebbe minori trasferimenti e migliori servizi, a fronte di una minore pressione della burocrazia e del carico fiscale. La media nazionale della copertura della spesa corrente con i tributi propri (Irap, addizionale regionale Irpef, etc.) delle Regioni arriva al 64,6% in Lombardia, al 53,7% in Piemonte, al 53% in Veneto, mentre i valori minimi si registrano al Sud, con il 31,3% in Campania, il 30,2% in Puglia, il 29,6% in Umbria, il 22,3% in Calabria e il 21,6% in Basilicata. La riforma federalista dovrebbe arrestare quel circolo vizioso che genera più spese per lo Stato e più tasse per i contribuenti, mettendo fine agli sprechi di denaro pubblico: tuttavia, il presidente di Confartigianato, Giorgio Guerrini, denuncia il rischio della regionalizzazione e di successive asimmetrie, che potrebbero non assicurare una tassazione equa a carico degli imprenditori. L’elaborazione dell’Ufficio studi della CGIA lascia trapelare dei dettagli interessanti: con il federalismo ci sarà un aumento del 37% (43 miliardi di euro) delle spese attribuibili, che, aggiunti all’attuale spesa gestita dalla Regioni (116miliardi 246 milioni di euro), arriveranno a 159 miliardi 309 milioni di euro. Si scopre che per l’Abruzzo e per la Puglia ci saranno aumenti rispettivamente del 51,3% e del 51,7%, per passare al 39,7% del Lazio, al 39,2% della Toscana, al 38,9% della Campania, al 38,8% della Lombardia e al 24,5% della Basilicata, che registra il minore incremento. I POSSIBILI EFFETTI POSITIVI… Il ddl dovrebbe esaltare le potenzialità democratiche del federalismo fiscale, responsabilizzando la classe politica, per un rapporto più stretto tra prestazioni pubbliche e prelievo a carico dei cittadini: dunque, maggiore trasparenza, efficacia ed efficienza in un programma che sostiene la convergenza delle Regioni meno sviluppate del Mezzogiorno e tonifica la crescita economica del Centro-Nord. Infatti, «in un contesto economico e politico-istituzionale che non consente il massiccio ricorso al debito pubblico è chiaro che dovranno farsi carico del nuovo corso aperto dal federalismo fiscale prima di tutto le classi dirigenti del Mezzogiorno, che devono interrogarsi sulle ragioni ambientali che ostacolano da sempre l’innesco di autonomi processi di sviluppo nelle aree più arretrate» (Renato Schifani, presidente del Senato). Il Presidente del Senato ha sottolineato, lo scorso novembre, la necessità di «assicurare anche tre obiettivi»: gli investimenti per «garantire un’adeguata educazione e formazione professionale per le nuove generazioni del Mezzogiorno», il potenziamento e la creazione delle «infrastrutture materiali e per i trasporti», infine la certezza dei rapporti giuridici, «attraverso tutti gli interventi necessari all’affermazione del principio di legalità, contro ogni forma di malversazione e di infiltrazione criminale nell’economia». Inoltre, lo studio Competitività Regolazione Mercati (ottobre 2008) del Centro ricerche indipendente Cerm suggerisce un federalismo costituzionale, per smontare la potestà concorrenziale tra Stato e Regione: l’Italia ha ereditato un divario geografico pronunciato in termini di sviluppo economico, che rende imprescindibile procedere a riforme strutturali nell’ambito dei mercati, del lavoro e del welfare. Troppi, appunto, i vincoli per gli enti locali: il 67% dei sindaci intervistati dal Censis lamenta l’impossibilità di utilizzare le risorse provenienti dagli avanzi di amministrazione, cui si aggiunge l’indisponibilità dei proventi della vendita di quote azionarie o porzioni del patrimonio immobiliare per i vincoli imposti dal patto di stabilità interno. Pesa, soprattutto, l’assenza di una precisa e collaudata articolazione dei poteri territoriali: il federalismo permetterebbe un migliore governo del territorio, solo se «spolicitizzato», puntando ad una governance locale finalizzata a far funzionare i rapporti tra i diversi soggetti attivi sul territorio, secondo un assetto di poliarchia matura e responsabile. Secondo lo studio di cui sopra, mantenendo i tassi di occupazione e di produttività attuali, per il 2012 gli indici di dipendenza strutturale correnti (rapporto in percentuale tra le persone in età inattiva e quelle in età attiva) segnano un distacco inequivocabile tra il Mezzogiorno ed il resto dell’Italia: l’oltre 140% del Sud (1,4 persone non al lavoro per ogni persona occupata) si oppone all’80-90% delle altre aree geografiche. Questa sproporzionalità tra gli occupati, fonte di ricchezza, e gli inattivi, che esprimono domanda di consumo e prestazioni sociali, potrebbe essere anche un freno al federalismo nazionale. È necessario operare riforme strutturali per il riordino del welfare system e per compensare le crescenti pressioni delle prestazioni pensionistiche e sanitarie, che cadrebbero sui redditi degli occupati: questo potrebbe attrarre investimenti ed ottimizzare il mercato, vero motore dell’occupazione e della produttività, capace di incidere sulle infrastrutture, sulla qualità della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici locali. Anche l’Ocse si è espresso positivamente nei confronti della riforma federale, giudicandola «sana», anche se «difficile da perseguire nel momento attuale». Infatti, si stima una profonda recessione per l’Italia, con il calo del Pil (-5,3% nel 2009) e una ripresa nel 2010 a +0,4%: il Paese soffrirà di un forte incremento della disoccupazione (+10%), del calo dei consumi (-2,4%) e degli investimenti fissi (-16%), mentre il debito pubblico supererà il +115%, tendendo al +120%. In questa situazione, secondo Carlo Sangalli, sarà necessaria la costruzione di un responsabile federalismo fiscale, che «indichi con chiarezza il limite di pressione fiscale complessiva e la conseguente suddivisione dei limiti massimi di prelievo tra i vari livelli di governo». Un miglior uso delle risorse pubbliche e una migliore qualità dei servizi pubblici possono concorrere a un nuovo «patto fiscale» con i cittadini, che richieda determinazione nel contrasto all’evasione e chiarezza nel ricorso alla spesa pubblica. È lo stesso ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che sottolinea come la lotta all’evasione si renderà effettiva con la riforma federale, perché «solo facendo scendere in campo i comuni ci sarà un effettivo controllo». …E I PROBABILI RISCHI Le prime anomalie per le regioni meridionali potrebbero scaturire dalla «fiscalità di vantaggio», reclamata da Raffaele Lombardo (Mpa) nel compromesso federalista con Roberto Calderoli (Lega Nord). Si vorrebbe richiamare il «modello-Irlanda», applicabile in un contesto ambientale solido: nel Mezzogiorno questo contesto (infrastrutture, servizi, clima sociale, bassa criminalità) è molto fragile e la fiscalità di vantaggio non riuscirebbe ad incidere sugli interventi di coesione e sviluppo, perché colmerebbe solo gli sgravi fiscali. Del resto, la riforma potrebbe costare allo Stato fino a 100 miliardi di euro e non è sicuro che il decentramento di funzioni a Regioni ed enti locali comporterà un risparmio sul lungo periodo, specialmente si verificherà una frammentazione e diversificazione del sistema tributario. In fin dei conti, l’autonomia degli enti locali è già piuttosto limitata, se si considera l’esclusione «di ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, salvo le addizionali previste dalla legge statale o regionale»: ciò significa che la possibilità di imporre nuovi tributi in realtà è molto limitata. La responsabilizzazione etico-politica potrebbe (il condizionale è d’obbligo) rafforzare una classe politica di bassa qualità per le competenze e l’etica pubblica: un problema aggravato da partiti deboli e da una società civile fragile, poco dotata di cultura civica e incapace di valutare l’operato dei propri rappresentanti. Ad oggi, manca qualsiasi collegamento ad una riforma delle istituzioni, con il pericolo di scaricare sul territorio la recessione del Paese e i costi della riduzione della spesa pubblica, senza variare i meccanismi di impiego delle risorse pubbliche, oggetto di sperperi, malversazioni e inefficienze, soprattutto al Sud. Nell’incontro Il federalismo e l’Italia, le questioni aperte si sono palesate altre due criticità del ddl Calderoli: la compartecipazione Iva agganciata ai dati fiscali e non distribuita in base ai dati dei consumi Istat, come avviene oggi, con il rischio di complicazioni amministrative ed erraticità perequative tra i comuni; la compartecipazione al gettito Iva e Irpef, in sostituzione dei trasferimenti erariali per finanziare le funzioni di Regioni ed enti locali, è ritenuta la scelta meno responsabilizzante per gli amministratori e la meno federalista, perchè i soldi continueranno ad arrivare dallo stato; i Comuni, abolita l’ICI sulla prima casa, potrebbero conquistare il gettito della nuova cedolare secca (al 20%) sugli affitti. Il dott. Silvio Suppa, Ordinario di Storia delle dottrine politiche e Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Bari, annota come il federalismo in Italia sia sinonimo di dissociazione: «mina le basi nazionali ed unitarie della Repubblica, accentuando la perdita dell’identità conflittuale e della capacità di configgere». Ad esempio, «i problemi della Puglia in materia di sanità e di approvvigionamento idrico possono essere risolti attraverso politiche di cooperazione nazionale, non con il federalismo, che potrebbe annullare la sussidiarietà regionale». Il testo del Senato prevede che si raccolgano ed elaborino una serie di dati finanziari e socio-economici (art. 5, comma 1, lett. f), per i quali sarà «istituita una banca dati comprendente indicatori di costo, di copertura e di qualità dei servizi, utilizzati per definire i costi ed i fabbisogni standard e gli obiettivi di servizio, nonché per valutare il grado di raggiungimento degli obiettivi di servizio». Occorre, però, che l’attività statistica funzioni sempre a regime e che i dati siano disponibili per il cittadino che deve valutare il grado di raggiungimento del servizio erogato: insomma, la reperibilità dei dati ed una costante e capillare informazione che, allo stato attuale, è assente. Allo stesso tempo, è necessario che le Commissioni di controllo e bilancio esprimano eticità, competenza ed onestà: chi garantirà il cittadino? Un altro dato da non sottovalutare è l’indice di dipendenza strutturale elaborato dal Cerm, secondo cui, tra 4 anni, nel Mezzogiorno ad ogni persona occupata ne corrisponderà 1,4 fuori del lavoro (in tabella Le previsioni sull’occupazione: lo scenario intermedio ponderato): secondo Fabio Pammolli, direttore del Cerm, l’operazione di mantenere all’interno del territorio di origine la fiscalità prodotta, compensandola con interventi nazionali, non è sufficiente a garantire lo sviluppo del Sud. Né la differenziazione fiscale, né la perequazione nazionale saranno la panacea di tutti i problemi: c’è il rischio che i fondi perequativi rallentino il processo di valorizzazione delle risorse regionali, perché, senza crescita nel Meridione, la compensazione finanziaria avrà sempre bisogno di continue iniezioni di denaro da parte delle regioni più ricche. Infine, il fondo perequativo verticale (12-14 miliardi annui) deve compensare gli squilibri fra le entrate tributarie delle regioni e consentire di erogare i servizi a livelli uniformi, ovvero garantire il rispetto degli stessi standard nella prestazione di determinati servizi a prescindere dalla capacità di ricavare risorse fiscali dal loro territorio. Cosa succederebbe se venisse meno la solidarietà regionale? Se, ad esempio, la Lombardia o il Piemonte evitassero di cedere, tramite lo Stato, una parte dei loro introiti alla Puglia o alla Calabria, per colmare i costi di un determinato settore? È un’incognita da non tralasciare, perché non dobbiamo dimenticare che il federalismo fiscale nasce dalla proposta della Lega, che punta a trattenere maggiori risorse nel Nord più ricco, riducendo la redistribuzione verso le regioni meridionali (e il fondo perequativo non è altro che un contributo solidale regionale). FEDERALISMO, VANTAGGIOSO O PENALIZZANTE PER IL MEZZOGIORNO? Le visioni più pessimistiche guardano al federalismo fiscale come alla separazione del ricco Settentrione dal mendicante Meridione, la cui debolezza economica potrebbe implicare un onere fiscale maggiore per raggiungere il gettito minimo, i tagli alla sanità e la chiusura di molte scuole (perché il corpo docente al Sud è anziano e costoso), mentre i fondi europei, anziché creare sviluppo, serviranno a tamponare la spesa corrente. In effetti, il federalismo richiede miliardi di euro per le Regioni, esposte al collasso, e la maggiore autonomia finanziaria, sostiene Giuseppe Bertolussi, sarà difficilmente sostenibile dalle amministrazioni del Sud. Dallo studio effettuato dalla CGIA, rispetto ad un saldo negativo medio nazionale per comuni pari a 1 milione e 132mila euro, si rileva che in Campania la media per comune è di 2 milioni e 732mila euro, in Puglia di 2 milioni e 518mila euro, in Basilicata di 1 milione e 301mila euro (come in tabella Il difficile equilibrio nei Comuni 2006 e nei Capoluoghi 2007). Emerge, ancora una volta, il divario che spacca in due il Paese. Pierluigi Bersani, ministro ombra del PD, denuncia «un Sud abbandonato a se stesso e sempre più marginale nella vita del Paese» e riconosce il bisogno di «partire dal ripristino del credito di imposta automatico per investimenti di impresa» e di orientare «le nostre politiche, fondi nazionali e comunitari verso i servizi e le risposte ai diritti di cittadinanza». «Ho l’impressione che il governo - sostiene Nichi Vendola - non solo non si occupi del Sud, ma che non stia mettendo in campo alcuna terapia in grado di mettere al riparo la parte più fragile del Paese dal terremoto finanziario che sta arrivando». Per ridurre le distanze tra Nord e Sud occorrerebbe investire nello sviluppo dell’economia del sapere, dalle elementari all’università, quindi, affrontare la questione della mobilità che comprende, oltre all’aspetto economico, quello sociale, geografico, culturale, della innovazione, dell’accettazione degli immigrati e della libera concorrenza; infine, sciogliere il nodo della governance, ovvero rendere lo Stato efficiente, moderno, trasparente, in grado di investire sulle nuove tecnologie e di controllare le politiche della spesa pubblica. UN FEDERALISMO PER CONFRONTO DAL BASSO Emerge un quadro piuttosto delicato e complesso, a tal punto che il federalismo fiscale appare come «una riforma parziale ed insufficiente per l’architettura istituzionale del Paese, senza risposte reali per ogni territorialità, che ha, dunque, bisogno di una soluzione strutturale, non garantita da un’unica e semplice redistribuzione della fiscalità» (Tommaso Minervini). Fiducia e positività sembrano essere gli atteggiamenti richiesti, da affiancare necessariamente al salto culturale del cittadino e dell’amministrazione, per eliminare tutte le criticità correnti, senza scadere nel tecnicismo. Informazione, trasparenza e semplificazione dell’attività burocratica richiamano la nozione di federalismo per confronto, ovvero una riforma non centralista e dal basso. Bisogna evitare di creare una parola magica: il federalismo fiscale non è un totem, ma un metodo di governo che, in teoria, dovrebbe conferire ricchezza alla Nazione. Marcello la Forgia

Autore: Marcello la Forgia
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