Fantasticherie poetiche di Giacinto Poli
La Quaresima a Molfetta è vissuta con grande fede, stimolata da numerose iniziative culturali, teatrali e concertistiche. La Settimana Santa è poi il periodo in cui più si è coinvolti con la partecipazione alle funzioni religiose e alle processioni. Il pensiero poetico di Giacinto Poli (1811-1882), che pubblichiamo, richiama con struggente realismo ciò che ogni molfettese sente nell’animo quando assiste, alle prime luci dell’alba del Venerdì Santo, all’uscita del Cristo Morto dalla chiesa di S. Stefano. Sono anche i sentimenti e le immaginazioni che prova ogni molfettese lontano, dalla famiglia e da noi, per motivi di lavoro. Nel giorno del Giovedì Santo del 1831, veleggiando di ritorno da Trieste alla mia patria, lungo le coste dell’Istria, un vento nord-est costrinse il naviglio, sul quale io mi ero imbarcato, a gittare l’ancora al cospetto delle spiagge di Rovino, città che sorge pochi passi distante dal luogo dell’ancoraggio. Verso il tramonto, tutto era calma e silenzio, eccetto il mormorio delle onde gementi sotto il naviglio, e le ultime voci che venivano dalla riva, quasi manifestazioni di una natura che respirava, amava e soffriva! Io mi ero riunito ad alquanti marinai sul cassero, e dirigeva con loro intentamente lo sguardo verso una Chiesa che sorgeva a vista, e vedevamo una turba di devoti, facendo di se lunga riga, entrarvi ed uscirne; quando altro gruppo di marinai assembrato sulla banda opposta della barca, prese ad imitare con la voce il flebile metro del tamburo e della tromba che serve di richiamo alla processione testè descritta. In quel suono, a quell’ora che pare proprio il giorno piangere che si muore, credetti sentire una voce carezzevole di madre, che m’invitava a sospendermi al suo seno, per suggere il dolce latte delle prime illusioni. Era la voce della patria che mi richiamava al culto delle sue feste, a’ sorrisi del primo amore, alle sante gioie del domestico tetto. Mi ebbi come una vertigine, mi trassi alla prua, mi vi strinsi forte, come ad amico, e affisato pensoso lo sguardo nel gorgo de’ flutti, mi si gonfiò di lagrime infuocate. Soffersi in una parola un vero assalto di nostalgia, sicchè da quell’ora non ho più meravigliato dell’effetto fulmineo che il così detto Ranz des vaches produce sui gagliardi delle elvetiche rupi. In una pagina successiva (p.19) si descrive lo svolgersi della processione: La processione che sino a tal punto si è difilata per vie anguste, fiancheggiate da alti palagi (sicchè dessi intercettavano il raggio del giorno nascente), subito si allarga per ispaziosa via, non altrimenti di un fiume, che dopo aver corso fra brevi argini, maestosamente va a riversarsi in capacissimo letto! Fu allora ch’io vidi il Sole, questo poderoso signore della natura, ornato de’segni del suo vicino trionfo, levarsi gigante dal letto dell’Adriatico. Le acque pareano palpitare, consce del suo trionfo nel ristorare la natura da’ rigori del verno e vivificarla di nuova vita! Immagine mirabile del Cristo, che franto il coperchio sepolcrale, assorgerà in Cielo nella moltitudine della sua forza, e quasi sposo uscito dal talamo, con un amplesso lo congiungerà alla Terra cui un suo sorriso rinverde e rinfiora! Giacinto Poli di Vitangelo e Drusilla Tortora Braida sposò Felicia Calò (1811-1837), rimasto vedovo si risposò con Antonietta Antonelli de Paù di Terlizzi. Era iscritto alla Confraternita di Santo Stefano sin dalla fanciullezza, nel 1823, fu anche Priore nel 1858. Viaggiava spesso sui trabaccoli molfettesi alla volta di Trieste e di Venezia. Come uomo di profonda fede non mancò di servire la Chiesa iscrivendosi anche nella Confraternita del Santissimo, così risulta da un elenco di confratelli del 1858. Ricoprì la carica di maggiore della Guardia Urbana ed era apprezzato come ottimo conferenziere. Attraversò molti momenti critici della sua vita tra cui la perdita del primogenito Vitangelo morto nell’eruzione del Vesuvio la notte del 24 aprile 1872.
Autore: Corrado Pappagallo