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Delirio, la “pizzica” per raccontare il Sud Teatro, successo della rappresentazione degli studenti dell'Ipssar
15 giugno 2004

Contadini e contadine immobili sotto il sole nei campi di tabacco del Salento, simili a pupi in attesa di essere animati da cinquanta lire in un vecchio teatrino di marionette, simbolo dell'immobilità dell'antico (e dell'attuale?) Sud, vittima di un incantesimo atavico che costringe alla perpetua iterazione di gesti meccanici... In contrasto con la vecchia generazione, sgusciano dai lati del palcoscenico i moderni eroi: impomatati, sinuosi, fare ammiccante e strafottente al contempo, delineano in poche battute la realtà meridionale, rivolgendo al pubblico la provocatoria domanda: “Conosci il Sud?”. Con questi suggestivi fotogrammi ha inizio (7 giugno, Atrio della Basilica Madonna dei Martiri) “Delirio”, punta di diamante di un progetto condotto dall'IPSSAR (l'Istituto Alberghiero di Molfetta, cui rivolgiamo il nostro più sincero plauso), sotto la guida dei docenti Adelaide Altamura, Carmela Aurora, Francesca de Gennaro, Teresa de Leo, Gioacchino Giacò, con regia e coreografie della sempre stupefacente Maria Spadavecchia. Hanno prestato preziosa opera anche Rosamaria De Carolis (costumi), Maria Filograsso (danza popolare) e Luigi Rinaldi (realizzazione del manifesto). In un onirico viaggio di conoscenza del Salento, sono le danze, in particolar modo la “pizzica” (le musiche sono state eseguite dal vivo dalla Compagnia di Canto Popolare “'Iss e trase”), a raccontarci la storia di Maria (Loredana Altamura), “tarantata”, personaggio di fantasia, dai tratti riconoscibili in molte altre donne oggetto della ricerca di Ernesto De Martino. Seguiamo l'involuzione (ammesso che possa definirsi tale) psicologica della giovane contadina: la sua comparsa (come per la Margherita gounodiana) avviene nel corso di un'efficacissima scena corale. Sulle note di “E lu sule calau calau” (canto di ironica protesta dei contadini dinnanzi all'irrisorietà del salario e alla durezza del lavoro), al tramonto, in una sorta di carnascialesco rianimarsi del coro popolare dopo le fatiche d'un'intera giornata, Maria appare, vispa e sorridente, una ninfetta irrequieta dai colori tipici del Mezzogiorno. Nella sua allegra vitalità gioca con le piantine di tabacco, ne lancia le foglie per aria, scombina l'ordine delle cose, rivela un'ingenua e innata sensualità... La sua freschezza funge da richiamo per ben tre giovani del posto; tre fazzoletti di diverso colore sono i pegni offerti dai pretendenti a Maria, al termine d'un'indiavolata danza di corteggiamento che prelude alla pausa di grande lirismo rappresentata dall'assolo dell'Altamura sulle note di “Kalinifta”, serenata in griko, scritta da Vito Domenico Palumbo, dedicata a un amore lontano. In ideale colloquio con la notte, gli oggetti della quotidianità e la vegetazione circostante (lo scenario naturale dell'atrio della Basilica si rivela carta vincente!), in una sorta di feticistica contemplazione dei doni ricevuti, Maria sceglie a chi indirizzare le sue fantasticherie. Il disinganno è però in agguato. “Le stelle da lassù mi guardano, / e con la luna bisbigliano di nascosto / e ridono e mi dicono: al vento / butti le canzoni, sono perdute!”. L'annunzio di una nuova festa, la suggestiva vestizione di Maria col fazzoletto dell'amato in bella mostra sono il preludio all'amaro rifiuto. L'uomo le preferisce una bionda, incarnazione di un femminino più quietante, e il morso della tarantola diventa la manifestazione esteriore della rabbia e della frustrazione. La contadina, ormai vicina alla verghiana Gnà Pina e al suo corrosivo tarlo d'amore, si abbandona ad evoluzioni mai conducenti all'unione totale con un simulacro dell'oggetto dei propri desideri (abilissimo anche il danzatore, look alla David Bowie e lieve somiglianza fisica col “Duca Bianco”), in una scena ch'è il culmine emotivo di “Delirio”. Il coro popolare, sempre più compatto, a formare un ideale quadrato militare, si avvale di ogni mezzo per riguadagnare alla comunità l'invasata, che, in segno di distinzione, non indosserà più la divisa delle compaesane, ma un lungo camice bianco. Sarà la visita alla cappella di San Paolo a Galatina a risolvere il dramma di Maria e la sua danza conclusiva, scomposta, liberatoria, simile al furore orgiastico delle Baccanti (bellissima e toccante la performance, sorretta dall'entusiasmo e dalla frenesia dell'intero collettivo, di Loredana Altamura, dotata di espressività non comune) simboleggia l'esorcizzazione del mal di vivere e del mal d'amore. Che il sollievo sia solo momentaneo, ché nuovi affanni verranno, poco importa: “Ci è taranta lassala ballare, / ci è malincunia cacciala fore”. Gianni Antonio Palumbo gianni.palumbo@quindici-molfetta.it
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