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Così ricordo mio zio Lorenzo una persona straordinaria
15 aprile 2008

Quando un uomo avverte distintamente che la propria esistenza volge al termine, è inevitabile si abbandoni a riflessioni sul significato più riposto d'attività ormai divenute bagaglio inalienabile della propria quotidianità. Una delle ultime volte in cui ho veduto mio zio, il Professor Lorenzo Palumbo, aveva fatto dono a mio padre del suo ultimo libro, pubblicato nel 2007 dalle Edizioni Panico: “Un feudo ecclesiastico: Uggiano la Chiesa nel Settecento”, precisando che, a suo parere, si trattava di un volume inutile, un elenco nudo e crudo di famiglie, con indicazione dei loro possedimenti o, il più delle volte, 'non possedimenti'. In realtà, questa “sorta di anagrafe storica del comune di Uggiano la Chiesa” risponde a un'esigenza più profonda, la più alta forma di pietas che possa concepirsi per un uomo di scienza, che abbia fatto della storia di altri uomini l'oggetto della propria ricerca: restituire chi è morto alla memoria dei vivi. E il merito più grande della ricerca di Lorenzo Palumbo, come ha ben sottolineato il Preside Giovanni de Gennaro, è quello di aver indagato, per amore di verità, non solo le alterne vicende di “baroni ribelli e indocili vassalli”, che magari, nelle noticine di manuali di storia, specialmente locale, trovano cittadinanza, ma anche e soprattutto quelle di oscuri contadini, con le loro mense di “cibi non compri” e strategie matrimoniali finalizzate non alla spartizione di reami o feudi, ma a un'oculata gestione di patrimoni spesso modesti. Un libro bellissimo, che certo non ho le competenze per poter apprezzare in tutta la sua finezza, è “Il massaro, zio prete e la bizzoca”. Una monografia sulle comunità rurali del Salento a metà Settecento ch'è una lezione di metodologia sin dall'epigrafe guicciardiniana, quella, notissima, che ci insegna a non “parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola”, ma esercitando la “discrezione”. Un monito che dovrebbe accompagnare, nella sua indagine, ogni studioso e ch'è coronato, sul retro di copertina, dall'avvertenza di non attribuire valore assoluto alle fonti catastali, “un apparato, che va smontato e rimontato”, alla luce anche dei rapporti tra soggetti rilevanti e oggetti di rilevazione. Alla luce di tali cautele metodologiche, le fonti catastali parlano e da elenchi altrimenti aridi e documenti apparentemente peregrini si delinea nitidamente il ritratto di una società legata fortemente alla terra. Una collettività per cui la presenza di uno “zio prete” all'interno di una famiglia di massari rappresentava una sorta di indice d'ascesa sociale, al punto che in molti nuclei erano registrati trentenni, spesso privi di una qualche vocazione, ancora dediti, magari anche con forte ritardo, agli studi per conseguire il sacerdozio. Una società in cui spesso l'esigenza di mantenere indivisi i patrimoni o l'impossibilità di dotare adeguatamente giovani spose induceva a un celibato, o soprattutto nubilato, forzoso. Si spiega così la teoria di virgines in capillis e di “monache pizocare”, le “bizzoche”, che Lorenzo Palumbo ridisegna con la sottile ironia che lo contraddistingueva, definendole un “gruppo di donne, giovanissime meno giovani o addirittura decrepite”. Donne che spesso accettavano la propria condizione con ingenua e passiva rassegnazione, o magari si dibattevano sotto il giogo, finendo col favoleggiare improbabili congiungimenti carnali col Diavolo in persona, come Maria Caterina Salinaro in una testimonianza del febbraio 1727. Testimonianza che indurrebbe al dileggio della suddetta se, dall'avvertimento del contrario, non si passasse al sentimento del contrario. E quest'ultima era una capacità che a Lorenzo Palumbo non mancava e i suoi scritti, anche quelli apparentemente più tecnici, ne sono innegabilmente investiti. Sono tanti i bei ricordi che conserverò di questo zio, ormai un po' il patriarca della nostra numerosa famiglia. Uno zio che m'incuteva assoluta soggezione, perché la consapevolezza della sua immensa cultura, frutto dei libri, dell'esperienza di vita e della conoscenza della natura umana, mi faceva sentire una nullità al suo cospetto. M'inorgoglivo, quando elogiava un mio articolo di “Quindici” o di “Luce e vita”; mi arrabbiavo quando, con la schiettezza che lo caratterizzava, mi presentava come “il nipote pazzo che si era messo in testa di fare lo scrittore”. La sua indipendenza culturale, la ricerca della verità, l'ironia, a tratti bonaria a tratti sfociante nel sarcasmo – sempre irriverente, specie all'indirizzo di scriteriati detentori del potere – costituiscono l'eredità che lascia a chiunque, tra i banchi di scuola, nelle aule universitarie, per le vie di Molfetta, abbia incrociato la sua strada. E ho idea che nel Salento tanti massari, zii preti e bizzoche siano rimasti orfani di chi avrebbe potuto, dalle polveri di antichi catasti, restituire loro memoria. E con la memoria un tardivo barbaglio di vita.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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