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Concorso nazionale per insegnanti, la lettera di due docenti precarie di Molfetta a "Quindici"
02 settembre 2012

MOLFETTA - Un bando nazionale che dovrebbe rivoluzionare la scuola italiana. È il concorso per i nuovi insegnanti (in pubblicazione dal 24 settembre 2012): così dovrebbe ripartire la selezione dei futuri maestri e professori (quasi 12mila cattedre), con l’obiettivo di tenere un concorso ogni due anni in modo da portare forze giovani nella scuola pubblica. Nel 2013 dovrebbe essere indetto un nuovo concorso docenti per la scuola statale, che assegnerà in tutto circa 10mila posti.
Tuttavia, diversi sono i nei che sono stati già evidenziati in queste ultime settimane. Innanzitutto, nelle attuali graduatorie sembrano esserci circa 163mila iscritti: i conti non tornano. Inoltre, per essere ammessi al concorso è necessario aver conseguito l'abilitazione all'insegnamento entro la data di scadenza del termine per la presentazione della domanda: un requisito con cui il Codacons sta preparando una class action per l’esclusione di giovani e docenti che hanno lavorato per anni ma non hanno potuto abilitarsi per colpa esclusiva del MIUR che per oltre un decennio non ha indetto né concorsi né abilitazioni. Altri dubbi sui precari che hanno pagato e seguito le SSIS, senza chiarezza per il futuro.
Proprio per le lamentale e le perplessità emerse in questi giorni, due cittadine di Molfetta, le docenti precarie di lingua inglese Graziana Giotta e Maria Matropierro,
hanno inviato a Quindici la lettera sul nuovo concorso e sul precariaato italiano, che proponiamo di seguito.
 
«All’inizio del nostro percorso di studi universitario noi non sapevamo ancora di voler fare le insegnanti d’inglese. Non apparteniamo al gruppo di coloro che la voglia d’insegnare l’hanno sempre avuta nel sangue e nemmeno a quello di chi non ha trovato di meglio da fare. E non siamo neppure di quelle che pensano semplicemente (ché ancora ci sono) che l’insegnamento sia la professione che si concilia meglio con il ruolo di moglie, madre e casalinga. Semplicemente, con la nostra formazione e le competenze linguistiche che abbiamo maturato nel tempo, in Italia e all’estero, a un certo punto, c’è sembrata la scelta più ovvia.
Niente più concorsoni per noi, però. L’ultimo risale al 1999. Dieci anni fa, quindi, l’unica strada percorribile per l’abilitazione all’insegnamento era la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, la SSIS, ovvero la naturale evoluzione dei concorsi, voluta dai precedenti governi per svecchiare le consuete procedure di formazione e assunzione nella scuola (leggi, il concorso), in ottemperanza a quanto stabilito dagli accordi di Lisbona del 1989, validi per tutta l’Unione Europea. Due anni di corsi universitari, puntellati di lezioni ed esami, 300 ore di tirocinio, relazione finale ed esami, scritti e orali.
Due anni pagati profumatamente alle università che, per ben 9 cicli, hanno trovato nella SSIS la gallina dalle uova d’oro. Già allora si diceva che i posti disponibili per i corsi erano in relazione alla reale necessità della scuola italiana. Evidentemente si affermava il falso se, dieci anni dopo, noi siamo ancora qui a ingrossare le fila del precariato scolastico. Ma siamo abilitate, con un esame che ha, è bene ricordarlo, “ai sensi del decreto legge 28 agosto 2000 n. 240 […] valore di prova concorsuale ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti [GaE]”.
Abbiamo cominciato a lavorare con supplenze temporanee o incarichi a tempo determinato (i contratti annuali, per intenderci, di quelli che cominci a lavorare a settembre e alla fine di giugno non vai in vacanza, come crede il Ministro Profumo, ma vai a fare la disoccupata per un paio di mesi). Abbiamo scoperto che il lavoro che abbiamo scelto di fare ci piace e ci riesce anche discretamente bene. Non siamo noi a dirlo. Ce lo dicono le famiglie e gli studenti che sperano di vederci tornare l’anno scolastico successivo e invece ci vedono migrare in un’altra scuola per soddisfare un meccanismo di reclutamento così complesso e farraginoso che spiegare come funziona a uno che nella scuola c’ha messo piede solo da studente è un’impresa decisamente ardua.
Dieci anni così. Dieci anni ad aspettare di poter svolgere il nostro lavoro con una certa continuità didattica (un concetto che non sembra avere più nessun peso nella scuola-azienda del futuro) e con la tanto agognata stabilità contrattuale. Dieci anni che ci hanno fatto crescere professionalmente e umanamente, nonostante le condizioni di lavoro spesso disagevoli. Dieci anni durante i quali avremmo voluto fare di più, dare di più, se solo ce lo avessero concesso. Dieci anni a scalare una graduatoria che, nel corso del tempo, ha subìto diversi stravolgimenti dovuti alle rampanti intuizioni di ministri spavaldi e spesso incompetenti, mischiando ogni volta le carte, facendo saltare diritti acquisiti o, almeno, condizioni che sembravano consolidate.
Se insegnassimo in un altro qualsiasi paese europeo, sarebbe bastato essere impiegate con contratto a tempo determinato per 3 anni consecutivi per passare di diritto a lavorare a tempo indeterminato nella scuola. L’Italia, però, da questo punto di vista, preferisce non uniformarsi all’Unione Europea.
E arriviamo al presente. È da qualche giorno che TG e giornali sbandierano con clamore ed entusiasmo l’imminente concorso d’autunno per l’immissione in ruolo di 11.892 insegnanti nella scuola pubblica. La panacea al male del precariato, l’ingresso di docenti “giovani, preparati e meritevoli” nella scuola italiana. E già questo ci fa un po’ arrabbiare. Anzi, ci fa molto arrabbiare. Perché, automaticamente, noi inseriti nelle GaE (Graduatorie a Esaurimento), diventiamo, per opposizione, “vecchi, incompetenti e non meritevoli”. Ma andiamo oltre.
Forse non tutti sanno che questi giovani fenomenali di cui il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo tanto parla non potranno partecipare affatto al concorso in questione. Infatti, stando alle norme in vigore, i requisiti per l’accesso al concorso sono i seguenti:
• possono partecipare ai concorsi coloro che siano in possesso dell'abilitazione (conseguita, quindi, grazie ad un corso SSIS o all’ultimo concorso del ’99, cioè ottenuta tramite prova concorsuale);
• possono partecipare anche docenti in possesso del solo titolo di laurea, purché conseguito entro il 2001/02 per corsi quadriennali, 2002/03 per i corsi quinquennali e 2003/04 per i corsi esaennali (si tratta, quindi, di candidati che, facendo un po’ di calcoli, non avranno sicuramente meno di 30 anni);
• possono partecipare anche i soli diplomati (ISEF, Conservatori, Accademie) purché i diplomi siano conseguiti entro l'anno in cui si conclude il periodo prescritto dal relativo piano di studi a decorrere dall'anno accademico 1998/99 (DI 460/98 art. 2) (idem come al punto precedente);
• possono partecipare anche i docenti non in possesso dell'abilitazione, qualora non ci fosse un numero sufficiente di abilitati (3 volte i posti disponibili) (ipotesi fantascientifica per la maggior parte delle classi di insegnamento).
Detto questo, che sembrerebbe già sufficiente a chiarire la beffa, si aggiunga che le famigerate Graduatorie a Esaurimento sono piene zeppe di insegnanti abilitati, plurititolati, già valutati e con diversi anni di esperienza nella scuola pubblica alle spalle e, quindi, proprio per questo, non più tanto giovani (anagraficamente). Nella graduatoria della nostra classe di concorso, nella nostra sola provincia di appartenenza, per esempio, ci sono oltre 300 persone regolarmente abilitate all’insegnamento per una dozzina di posti disponibili ogni anno.
A questo punto, le contraddizioni sono evidenti: i “giovani” non possono accedere al concorso e quelli invecchiati nelle GaE non possono essere stabilizzati e, soprattutto, i cosiddetti precari storici (alla fine, i principali destinatari di questo concorso) sono già abilitati e idonei all’insegnamento. Perché dovrebbero sostenere una prova che hanno già sostenuto e superato, prova peraltro più complessa e articolata di questo “innovativo” concorso? E non finisce qua.
Quest’anno saranno avviati anche i TFA (Tirocinio Formativo Attivo), ossia delle SSIS in miniatura che, nel giro di un anno (anziché i due previsti dalle SSIS), abiliteranno altri insegnanti. Ma dove andranno tutti questi insegnanti? Che ce ne facciamo, ministro Profumo, di tutti questi insegnanti: giovani, vecchi, abilitati, laureati, specializzati, perfezionati, entusiasti, amareggiati, meritevoli, poco meritevoli, competenti, incapaci, preparati, poliglotti, tecnologizzati, informatizzati, intraprendenti e, soprattutto, esasperati?
Dove li mettiamo, ché i posti disponibili nella scuola sono così pochi che ci sono persino insegnanti in esubero utilizzati su classi di concorso differenti dalla propria o mandati a ricoprire incarichi amministrativi? Dove li mandiamo, ché i docenti sicuri di andare in pensione in questi anni sono stati “trattenuti” in servizio e non hanno più né la voglia, né la forza di restare là? Dove li facciamo lavorare questi fantastici illusi, ché le classi diminuiscono mentre il numero di alunni per classe aumenta ogni anno (in spregio alla qualità dell’insegnamento)?
Questo sarà il nostro decimo anno di precariato e il nostro futuro professionale è sempre più incerto, in barba a quella posizione ai “vertici della classifica” che siamo riuscite a guadagnare in questi anni. Il suo brillante concorso, noi, non lo faremo, ma siamo pronte, come ogni anno, a ricominciare da capo, in un’altra scuola, con altri studenti e altri colleghi, a dover dimostrare di nuovo quanto valiamo e quello di cui siamo capaci, noi vecchie e, perciò, incompetenti e poco meritevoli. Non è semplice e non è bello. Alla lunga, è un processo logorante. Eppure speriamo di riuscire a entrare in classe anche quest’anno. Perché la scuola vera finora l’abbiamo fatta funzionare noi, nonostante le vostre porcherie».
 
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L'istruzione ha avuto bisogno di espandersi per due motivi: economici e politici. Per motivi economici, perché è stato bene o male grazie all'istruzione fornita dalla scuola che essa ha potuto disporre del personale ad alto e medio livello di qualificazione richiesto dall'industrializzazione e dallo sviluppo economico. Per motivi politici, perché la scuola ha sempre avuto la caratteristica, dalle elementari fino all'università, di non trasmettere solo conoscenze ma anche valori, di non fornire solo una qualificazione tecnica ma anche una formazione ideologica, di non influire sugli aspetti cognitivi ma anche su quelli affettivi della personalità. Sul ruolo della scuola nella formazione ideologica e sull'importanza di quest'ultima per la produttività della forza lavoro nelle società capitalistiche hanno insistito molto, negli ultimi anni, gli economisti della nuova sinistra americana. Essi hanno, ad esempio, cercato di dimostrare che negli Stati Uniti “lo sviluppo del moderno sistema di istruzione non nacque dalle crescenti richieste di capacità cognitive provenienti dall'economia. Si può piuttosto dire che la nascita e lo sviluppo dell'istruzione moderna fu dovuta al drammatico bisogno dell'ordinamento capitalistico emergente di disporre di una forza lavoro stabile e di cittadini riconciliati con, se non assuefatti al sistema di fabbrica. L'ordine, la docilità, la disciplina, la sobrietà e l'umiltà: erano questi – come ammettevano tutti gli interessati – i benefici che ci si aspettava”.




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