Come un'antica sera ricordo di Franco Poli
Come un’antica sera (citazione tratta da uno scritto di Enrico Panunzio) rivivono, grazie alla mostra fortemente voluta dall’Arciconfraternita di Santo Stefano e curata da Gaetano Centrone (la realizzazione è avvenuta in collaborazione con il Museo Diocesano e con il patrocinio del Comune di Molfetta), alcune cruciali pagine della storia culturale della nostra città. Tra Museo Diocesano, Chiesetta della Morte e Sala dei Templari, ha veduto la luce una suggestiva e raffinata esposizione di alcuni capolavori del Maestro Franco Poli, pittore scomparso nel 2003. A inaugurare l’allestimento è stato il celebre storico dell’arte Philippe Daverio, accanto alla scrittrice Gianna Sallustio, autrice di una monografia sulle “stagioni pittoriche” del Poli. Nel corso delle manifestazioni che hanno avuto luogo nelle giornate successive, si sono succedute, in una suggestiva corale di storia dell’arte pugliese, alcune voci di spicco del nostro panorama culturale, tra cui lo storico dell’arte Gaetano Mongelli e gli artisti Michele Paloscia e Marisa Carabellese. Lo scenario della Sala dei Templari ha ospitato alcune delle opere di Poli risalenti al periodo compreso tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Già piuttosto variegato appare il ventaglio dei soggetti. Da tele che attestano la dedizione di Poli alle tradizioni popolari molfettesi, che si traduce nell’assorta contemplazione di teorie di visi espressionisticamente deformati nell’aura notturna, ci si volge verso prove di palpitante still life, per poi godere della festosa luminosità di un mandorlo e riconoscere, tra i volti di ritratti ammiccanti al movimento Novecento, i lineamenti dei maestri della pittura molfettese, come Salvemini o Antonio Nuovo, più volte ricordato nel corso delle manifestazioni correlate all’allestimento. Non mancano gli autoritratti - uno, in particolare, come ha notato Michele Paloscia, affine per atmosfera a una celebre opera di Hopper - e le rappresentazioni dell’amatissima moglie Gilda. A lei sono dedicati ben tre ritratti: il primo appare più tendente all’astrazione; il secondo ci riconduce a certe mediterranee immagini muliebri di Antonio Mancini; il terzo, un pregevole olio su tavola del 1946, appare più vicino allo stile di Achille Funi. Insomma, già le opere collocabili tra il 1937 e gli anni Cinquanta manifestano un’istanza di adesione al vero, ma anche la tendenza a recepire gli echi dei dibattiti e delle correnti in affermazione in Italia, declinandone le intenzioni attraverso personalissime e ispirate soluzioni espressive. Anche nei disegni della Chiesa della Morte emergono la perizia tecnica e l’attitudine all’osservazione, che si esprimono in poetica declinazione del reale, come in una veduta dei tetti di Molfetta, ma anche in vibrante auscultazione dell’universo, della vita degli insetti come della resa ora espressionistica ora realistica di figure umane corrucciate o sospese in silenziosa attesa. È, tuttavia, nelle opere del Museo Diocesano, che attestano il periodo tra gli anni Sessanta e il 2003, che la cifra dell’arte di Poli rifulge con maggior luce. Ecco l’inveterata tensione alla vita prorompere nella minuziosa raffigurazione di una realtà dal volto sfingeo, ch’è Mistero cosmico pur nelle sue più quotidiane e apparentemente insignificanti manifestazioni. È nella natura morta, nella “vita silente”, dimentica del caos e del frastuono, che Poli squaderna la tensione dell’esistere. Lo fa nel guizzo d’una lucertola, icasticamente immortalata su una parete, ch’è montaliano sudario, o nel brulicare di mosche e insetti, il cui lento incedere o l’immobilità sono ipostasi della perenne sospensione di un Tempo che ristagna e fugge. Barocco, quasi ossessivo, l’incombere della morte, prigioniera delle ali di una farfalla, la cui anatomia perfetta si erge a memento dissolvi, a effigie dell’infinita vanità di ogni umana forma. Esperienze pittoriche si incontrano e trascendono: è la lezione di Giorgio Morandi che rivive nelle teorie di brocche o bottiglie verdi e geometrizza l’inafferrabile essenza delle cose. Fiorenzo Tomea riecheggia in cardi e fiori secchi agonizzanti; alla sua produzione ci sembrano accostarsi gli onnipresenti fiori piuttosto che ai vasi che sfarfallano in una luce infinita dell’ultimo de Pisis. V’è una teatralità intrinseca in alcune tra le più belle creazioni: un lenzuolo lilla su cui posano fiori lungo stelo assurge a quinta di sapore teatrale per celare agli occhi dei curiosi uno spettacolo iniziatico e destinato all’eterna perpetrazione. Tutto sfiorisce e tutto passa, ma forse il palpito della vita trascorsa intride di sé gli oggetti e dona loro una linfa segreta, cui la Morte non potrà ottundere il respiro. Sono gli abiti di Gilda, la moglie- Musa, le sue pantofole, le sue spazzole, i cappellini, a nostro avviso, le gemme più preziose dell’arte di Poli. Vestaglie fiorate dalle cromie sgargianti, emblemi del tempo che fu, anime d’un piccolo mondo antico che l’oblio non ha abraso, ripropongono con vigore l’esuberante rumore d’un’esistenza sbarazzina. E così, di là dalle brume che accompagnano il sole all’occaso, è ancora giorno; è ancora vita.
Autore: Gianni Antonio Palumbo