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Vulnologia - dal mito alla realtà, una conferenza all’Aneb di Molfetta
23 aprile 2025

MOLFETTA - Se la sanità pubblica versa in condizioni problematiche, come evidenziato nella relazione della fondazione Gimbe già presentata nella sede, giunge una buona notizia ai soci dell’Aneb di Molfetta: un Laboratorio di Vulnologia è stato aperto presso l’Ospedale “Don Tonino Bello” di Molfetta all’interno della UOC (Unità Operativa Cure Palliative) diretta dal dott. Felice Antonio Spaccavento.

La Vulnologia (dal latino “vulnus”, ferita e dal greco “logos”, studio) è una branca della medicina di grande importanza, a cui negli ultimi tempi si sta dando valore perché con l’allungamento delle prospettive di vita e il parallelo incremento delle malattie degenerative, la demenza, l’Alzheimer, il Parkinson, la SLA e con la diffusione delle malattie croniche e oncologiche, patologie che costringono i pazienti a letto, è più facile che si formino piaghe da decubito e lesioni che rendono necessaria la presa in cura di un numero sempre crescente di pazienti.

La conferenza a cura della dott.ssa Anna Morgese, responsabile di questo nuovo laboratorio, si è tenuta nella sede sociale dell’Aneb il 15 marzo, con la partecipazione del dott. Felice Spaccavento in qualità di Direttore della UOC, ASL di Bari e, in qualità di moderatrice, della prof.ssa Marta Pisani, portavoce del TDM (Tribunale per i Diritti del Malato) con sede nell’ospedale di Molfetta.

Il Presidente dell’Aneb, prof. Michele Laudadio, presenta gli ospiti di cui elogia l’impegno, la qualità del lavoro e la profonda umanità impiegata nell’affrontare e tentare di risolvere le problematiche dei pazienti, sottolineando che la UOC di Molfetta è diventata punto di riferimento e sinonimo di eccellenza per tutta la provincia di Bari.

Prende la parola Marta Pisani che illustra il ruolo svolto dal Tribunale del Malato, associazione di volontari e professionisti, nata per difendere i diritti dei malati e con l’intento anche di ottenere qualche miglioramento delle prestazioni del SSN. L’azione del TDM tende ad affrontare con immediatezza le difficoltà delle persone che hanno problemi di salute e che per età o per mancanza di cultura non sanno come fare per rendere più agevole il loro percorso terapeutico e ottenere una visita o un esame strumentale urgente.

Altra funzione del TDM è quella di far conoscere al pubblico le potenzialità sanitarie del nostro territorio senza la necessità di doversi spostare da un luogo all’altro in cerca di cure.

La parola passa al dott. Spaccavento che si dice orgoglioso di potersi giovare della competenza e dell’umanità della dott.ssa Morgese che rappresenta una risorsa per l’intera comunità cittadina e per la provincia di Bari.

Entrata a luglio 2024 a far parte dello “staff” medico dell’ospedale di Molfetta in seguito ad una riorganizzazione delle ASL, ora è integrata nell’Unità Operativa Complessa ASL Bari, perché la sua attività risponde a pieno ai bisogni dei pazienti che sono ricoverati in alcune strutture della provincia: a Monopoli e a Grumo ci sono due Hospice pubblici con 16 posti letto, 500 pazienti affetti da malattie oncologiche o croniche da seguire sul territorio e 4 ambulatori a Bari, Bitonto, Grumo, Conversano.

A far funzionare questo complesso apparato collaborano un centinaio di persone tra infermieri, medici, ausiliari, OSS. Se il ruolo del Direttore della UOC è in larga parte manageriale, chi sta a diretto contatto con i pazienti sono gli infermieri che se ne occupano continuativamente; di essi bisogna apprezzare la dedizione e l’impegno, in particolare viene citato l’infermiere Vincenzo Cataldo per l’altruismo e la competenza con cui svolge il suo lavoro.

Le cure palliative (dal latino “pallium”, mantello) vengono somministrate al paziente anche quando non c’è la possibilità di una guarigione, avvolgendolo come in un mantello e aiutandolo ad avere la migliore qualità di vita possibile: “Quando non c’è più nulla da fare, allora c’è tantissimo da fare”.

Il malato non deve essere messo “al centro”, sballottato di qua e là, ma “al fianco”, affiancato da personale sanitario competente, per vivere meglio l’ultima fase della sua esistenza.

La dott.ssa Anna Morgese ringrazia il dott. Felice Spaccavento per aver dato credito e sostegno all’ambulatorio di Vulnologia che ha come obiettivo primario l’umanizzazione delle cure: il paziente viene preso in carico non solo per la ferita ma curato, in “toto”, senza trascurne l’aspetto psicologico. In che modo? semplificando il percorso terapeutico reso difficile dalle lunghe liste d’attesa; collaborando con gli altri medici in un’analisi clinica che si avvale del contributo delle diverse specialità; assicurando al paziente non autosufficiente, anche grazie alla ASL che ha voluto l’azione protetta nel 2013, la continuità delle cure nel delicato passaggio dall’ospedale al proprio domicilio; fornendo al paziente dimesso tutti i presidi necessari per curarsi.

L’esigenza di curare le ferite nasce nella storia dell’uomo prima ancora che nella storia della medicina. L’uomo nella preistoria maneggia il fuoco, scheggia la pietra, si ferisce, combatte, da ciò nasce la necessità di trovare dei rimedi per sanare le ferite.

La parola Vulnologia è stata coniata per la prima volta nel 1997 dal prof. Elia Ricci, medico piemontese, attento conoscitore di Arcagato (III sec. a.C.), chirurgo “vulnerarius” di origine greca, deportato a Roma dove, grazie alla straordinaria abilità nel curare le ferite, aveva conquistato fama e prestigio sociale e ottenuto la cittadinanza romana.

Abbiamo notizie sulla medicina sumero-babilonese dalla Tavola Sumerica (2100 a. C.) tramandata fino a noi, che descrive un trattamento di cura delle lesioni del tutto simile al protocollo applicato nei moderni ambulatori di Vulnologia: detersione e pulizia delle ferite che venivano lavate con acqua calda e birra, medicate con lamine a base di unguenti ed erbe, infine fasciate.

La medicina egizia era basata sulla mitologia e sui riti magici ma in seguito ci fu un gran cambiamento tanto che Erodoto chiamò gli Egizi “popolo dei sanissimi” per la cura che essi avevano della propria persona.

Il papiro di Ebers (1550 a.

C.) tramanda tutti i trattamenti usati nella medicina egizia per la cura delle lesioni: il miele veniva utilizzato come antibatterico e antibiotico; la birra veniva filtrata per ottenere i lieviti usati per portare ossigeno alle ferite; venivano impiegate anche le feci d’asino, ricche di lisina, un enzima che favorisce la granulazione e l’acetato di rame, potente antibatterico di colore verde che veniva spalmato sulle ferite.

Nella medicina greca è preminente l’aspetto mitologico: il saggio Centauro Chirone, educatore di Dei ed Eroi fra cui Achille, era medico e abilissimo guaritore, egli stesso, colpito da una freccia al ginocchio, ne ebbe un’ulcera che gli procurò grandi sofferenze senza mai guarire; Asclepio o Esculapio era il Dio della medicina, rappresentato col bastone e col serpente, il bastone, simbolo del sostegno al malato, il serpente, simbolo della rinascita per la sua capacità di mutare la pelle.

Ippocrate (460 a.C.-377 a.C.) considerato il padre della medicina scientifica, nel trattato “De Ulceribus” rivoluziò l’idea corrente che la ferita per guarire dovesse essere umida (“pus bonum et laudabile”), sostenendo al contrario che la ferita per guarire deve essere asciutta.

La medicina romana è in debito con quella greca per aver attinto da questa tutte le conoscenze mediche e soprattutto dal già citato chirurgo Arcagato che Celso loda “per essere egli nella cura delle ferite molto misericordioso”. Da menzionare sono ancora Galeno, noto per i preparati galenici e Celso, che fu l’unico vero medico romano.

Il Medioevo è stato un periodo buio per la medicina, il trattamento delle ferite era a carico dei religiosi che, avendo orrore del sangue, non ricorrevano alle lame, ma cauterizzavano le lesioni bruciandole.

La rivoluzione del mondo della chirurgia si attuò con Amboise Paré (1510-1590), medico francese, considerato il padre della chirurgia moderna. Allievo di un barbiere-chirurgo, si formò sui campi di battaglia curando i feriti e con la pratica mise a punto tecniche avanzate di suturazione e di trattamento delle lesioni che precorrono quelle della chirurgia moderna. Inoltre applicava ai pazienti un protocollo che prevedeva: sollievo al dolore, nutrizione adeguata con cibi proteici ma leggeri, riposo e attività moderata.

A Cesare Magati (1579-1617) si deve l’intuizione del moderno concetto di terapia del dolore, egli dice: “medicate con dolcezza, eleganza, garbo e delicatezza”, anticipando il tema del dolore che oggi è diventato di grande attualità.

Il Seicento e il Settecento sono stati secoli di enorme importanza per l’evoluzione della medicina. Il chirurgo francese Joseph Desault (1744-1795) per primo concepì il concetto di “debridement” chirurgico (rimozione del materiale necrotico), infatti le ferite per guarire devono essere pulite, il sistema di pulizia può essere la detersione, il lavaggio, ma anche l’uso di strumenti chirurgici come la curette o le lame.

Arriviamo ai tempi moderni. Joseph Lister (1827-1912) è stato il primo scopritore dell’utilizzo dei disinfettanti quelli che vengono impiegati frequentemente nelle medicazioni, l’ipoclorito, lo iodio, la betadine. Precisa però che sono da utilizzare con attenzione, perché se da una parte l’antisettico ha una potente attività antibatterica, dall’altra può irritare la cute intorno alla lesione e poiché una lesione guarisce in senso centripeto cioè dall’esterno verso l’interno, bisogna aver cura di mantenere integra la pelle sana che circonda la ferita.

Inoltre poiché la ferita stessa produce essudati irritanti, è necessario frapporre un film barriera che impedisca a questi umori di contaminare ciò che è sano. Ai giorni nostri l’effetto barriera è assicurato dalle colle che proteggono benissimo la cute sana dalle secrezioni della lesione.

Mario Mairano, primario chirurgo dell’ospedale San Giovanni di Torino, ha scritto un trattato sui nuovi metodi di cura delle varici e delle ulcere varicose che sono talmente diffuse da essere considerate una malattia sociale. Nonostante le moderne tecniche di gestione delle ferite, le ulcere venose sono difficili e lente da guarire e il rischio di recidiva è elevato. Il “gold standard” della cura delle lesioni venose è il bendaggio e la calza elastica ma i pazienti non accettano l’uso della calza elastica, dicendo di non riuscire a sopportarla.

Il “crollo delle colonne del tempio” si ha grazie a Giorgio Winter (1927-1981), egli sostiene che la guarigione ottimale di un’ulcera è in un ambiente umido,  mantenendo però un equilibrio, una relativa stabilità tra eccesso e scarsità di liquido.

È importante l’interazione tra medicazione e lesione perché se prima la medicazione era la stessa per tutte le lesioni, per la prima volta si dice che ogni medicazione deve essere pensata per una specifica lesione. Nell’ambulatorio vuolnologico di Molfetta, le lesioni più comuni da trattare sono quelle da pressione o piaghe da decubito che si formano sui pazienti allettati, le lesioni post traumatiche, le ustioni, le deiscenze, le complicazioni delle ferite chirurgiche in pazienti con comorbidità. Se il paziente è diabetico, se è un grande obeso o anche molto magro, se è dializzato può andare incontro all’apertura della ferita chirurgica, chiamata in termine tecnico deiscenza.

Di grande interesse è il piede diabetico che va incontro a molte complicazioni. I pazienti diabetici in passato rischiavano seriamente l’amputazione maggiore, ora se il paziente viene preso in carico in maniera corretta, si interviene prima che si formi  la lesione. I pazienti diabetici non hanno sensibilità a livello degli arti inferiori quindi, se camminano sulla sabbia bollente o hanno un sassolino nella scarpa non se ne accorgono e si procurano inavvertitamente delle ferite; se indossano scarpe non idonee o strette sotto l’iperpercheratosi o sotto i calli si formano delle piaghe.

Il paziente diabetico meriterebbe un’attenzione particolare, ma ad oggi, nell’ambulatorio vulnologico di Molfetta non ci sono ancora percorsi diagnostici preferenziali. Si sta cercando di attivare un “iter” che preveda un ecodoppler arterioso degli arti inferiori che è un esame fondamentale perché, in caso di necessità, si può rivascolarizzare il paziente e   salvare l’arto.

La Vulnologia oggi si pone tre obiettivi: il management (gestione) del paziente vulnologico ospedaliero; la gestione della cultura vulnologica che consiste nella formazione del personale sanitario; la prevenzione delle recidive attraverso una continua attività di formazione dei pazienti che vanno educati a non abbassare la guardia e a prendersi cura di sé con i giusti presidi sanitari.

 La conferenza ha avuto un grande riscontro presso il pubblico, stuzzicando la curiosità dei presenti alla ricerca di risposte sui loro problemi di salute.

Maddalena Azzollini

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