La Commissione Europea ha varato nei giorni scorsi la riforma della PAC. La PAC rappresenta la Politica Agricola Comune, ovvero una delle politiche di maggior peso gestite dell’Unione. A titolo indicativo, considerando la programmazione 2007-2013, la PAC impegna il 34% del bilancio dell’UE. Nata mezzo secolo fa, al fine di garantire una ripresa delle produzioni agricole in un continente martoriato dalla seconda guerra mondiale (con evidenti mancanze di generi alimentari), nel tempo si è trasformata in un sussidio alle coltivazioni ed ultimamente in una spinta all’innovazione e alla crescita. Negli scorsi anni la sola incentivazione è servita a rendere meno competitive numerose aziende del settore che, grazie agli aiuti economici, hanno goduto di una posizione di favore, falsando gli equilibri del mercato.
In termini quantitativi, la riforma varata prevede un taglio dei fondi che, per l’Italia, si aggirerebbe sul 6% nel periodo 2013-2020, pari a 285 milioni di Euro. Una sensibile riduzione derivante da una distribuzione da effettuarsi non più su 15 ma bensì sugli attuali 27 membri dell’Unione. I maggiori rappresentanti dell’agricoltura nazionale hanno manifestato tutte le perplessità derivanti da tale manovra con forti preoccupazioni. Sicuramente una prospettiva del genere crea tensioni e accomuna i vari attori coinvolti, politici soprattutto, nella ricerca di possibili soluzioni. Quanto esposto può essere ritenuta la prevedibile conclusione di un processo che ha visto un comparto importante dell’economia forse troppo sovvenzionato, in cui determinate logiche di impresa non si sono sviluppate.
Da anni infatti si chiede a gran voce all’agricoltura una maggiore professionalizzazione, non solo in termini di innovazione tecnologica ma anche in termini manageriali. Soprattutto nel nostro territorio sono ancora poche quelle realtà organizzate sui parametri della concorrenza. Assistiamo ad una estrema parcellizzazione delle aree coltivate con piccoli imprenditori che, in mancanza di una politica commerciale adeguata, svendono il proprio prodotto. Prodotto che subisce differenti passaggi di proprietà prima di giungere al consumatore finale. Un sistema in cui la produzione e il produttore non sono affatto tutelati e il guadagno principale si concentra nelle sole attività di intermediazione.
Manca un’adeguata valorizzazione e promozione delle produzioni tipiche, destinando ancora poca attenzione alle attività di marketing (soprattutto in chiave export). Il ruolo della politica dovrebbe relegarsi ai controlli e alla tutela di quel patrimonio unico di cui si è dotati. Nel contesto attuale, in cui ormai non è più possibile proteggersi dalla concorrenza con gli stanziamenti pubblici, sia per l’apertura dei mercati che per la graduale riduzione delle risorse disponibili, è urgente una riforma dell’agricoltura dal punto di vista gestionale. Il percorso virtuoso è quello della differenziazione del prodotto locale mediante l’esaltazione delle caratteristiche altamente positive.
La terra, il sole e il microclima che il nostro territorio garantiscono sono gli ingredienti principali per delle coltivazioni di elevata qualità. Elementi imprescindibili da tutelare e comunicare efficacemente. Altro passaggio fondamentale è quello dei processi di trasformazione. Essi contribuiscono ad aumentare quel valore aggiunto che tuttora manca all’intero settore agroalimentare. Un esempio è quanto avvenuto negli ultimi anni nel comparto vitivinicolo. Le nostre uve finalmente sono state apprezzate nel giusto modo, con vini che esaltano non solo la materia prima, ma anche l’intero territorio da cui derivano.
Il fattore di svolta è quello di avviare un percorso di crescita che ponga al centro il prodotto agricolo con tutte le attività correlate. Occorre rimodulare l’intera gestione in una prospettiva ampliata. Alla politica la tutela e i controlli, ma all’imprenditore l’utilizzo degli strumenti per rendere l’impresa autonoma e indipendente.