L'omaggio, che l'Università Popolare avrà pensato d'offrire al preside e suo presidente e che questi, penso, avrà deflesso dalla sua sede, con la sua modestia prevenendo ogni parvenza d'autocelebrazione, gli è stato reso il 15 novembre nella sala dell'Auditorium, il cui presidente, Damiano d'Elia, l'ha introdotto con il proprio saluto.
Condivido con il prof. Ragno, ultimo oratore della serata, come l'esperienza d'alunno scolare di De Gennaro, così l'inclinazione ad appellarlo professore, per nulla volendo sminuire l'importanza del suo ulteriore titolo. E, commiscendo la mia memoria con la cronaca, comincio esattamente dalla nostra esperienza liceale.
Anche Ragno era, se non ricordo male, nel corso C, tanto aleatorio, che la mia quinta ginnasiale contava solo dodici alunni. Avventizio il corso (tra quei figli di nessuno l'unico hijo de algo fu Mario Gambardella, umile per aver accettato quel corso e molto caro alla memoria del nostro professore per capacità ed impegno), avventizi i docenti, che venivano per andarsene solitamente l'anno successivo.
Ma proprio in quel corso avemmo come professore costante (quasi unico) Giovanni De Gennaro: costanti la funzione e la frequenza, salda la personalità, ampia la cultura, fini l'intelligenza e l'ironia, illuminati la considerazione dei discenti e il senso della funzione educativa. Io e compagni ne fruimmo dal 1958 al 1961, l'anno del centenario dell'unità.
Egli ha certo influenzato, consapevoli o inconsapevoli, in noi, che siamo stati docenti dopo lui, il rapporto con le scolaresche, ma mi son sempre posto una domanda, quando, tornato a Molfetta, ho constatato, oltre quella di preside, l'opera infaticabile di promotore culturale, studioso, conferenziere chiesto da ogni sodalizio.
La polivalenza della personalità ed opera è stato l'argomento della testimonianza, la prima in quella sera, di Tommaso Minervini. Questi non fu alunno di Giovanni, che era vicepreside nel liceo scientifico dei primi anni settanta, ma ha raccontato con partecipazione profonda il suo molteplice incontro con lui nello stesso ambito della scuola durante (per la pedagogica consulenza nelle “tre ore autogestite”) e dopo il liceo e poi nella vita pubblica, nella cultura amministrativa, nell'iniziativa sociale e culturale, nel ruolo ufficiale d'orientamento degli operatori scolastici, nell'opera d'educazione degli adulti, nell'impegno di studioso di storia risorgimentale (di cui dirige una rivista) e di storia cittadina, nella funzione quindi di costruttore d'un'identità e memoria storica per i suoi concittadini.
Devo annotare che Giovanni ha fatto appello (da educatore del sentimento cittadino valorizzandone la personalità e l'opera) alquante volte a Tommaso, qual sindaco della città, nelle iniziative dell'Università Popolare.
Vedendolo ottantenne ancora dare con energia impulso al sapere e alla sua diffusione, credere nella fecondità d'esso, nella sua funzione civile e sociale, presiedere l'UPM dal 1998 ed escogitare metodi per vitalizzarla, mi son chiesto, poiché l'ho scoperto sensibile ai “maestri”, se qualcuno, recependo il suo multiplo messaggio, l'avesse per “maestro”.
In due recenti scritti egli ha dato testimonianza, quali maestri, a Giacinto Panunzio e Tommaso Fiore (tralascio Salvemini, che egli può aver incontrato “nello spirito, non nella carne”). Ho comparato il suo ricordo attivo con il ricordo “memoriale” (mi sia concessa la tautologia) di coloro, cui ha chiesto una testimonianza scritta su Panunzio e Fiore, da inserire nella sua storia dell'UPM di primo novecento e nel libro su Fiore.
Certo essi tutti portano in sé il modello dei due uomini, però Giovanni ne ha fatto altro: oggetti di studio amoroso, oltre che di memoria affettiva e morale, fonti perenni d'impegno etico e sociale.
Nell'Auditorium credo d'aver avuto una risposta: Tommaso e “Tonino” l'hanno eletto maestro nel pensare e nell'agire. Caro egli a loro, cari essi a lui e sul reciproco dono di sé tra “maestro” ed “alunno” ha Ragno impostato la sua testimonianza, sul reciproco riconoscimento dell'impegno, sull'assistenza e sulla fiducia del professore nelle capacità e volontà dello studente.
L'avv. Morgese, secondo oratore, ha ricordato il tempo del comune impegno politico per la città: due convinzioni politiche diverse, ma similmente persuase dell'onestà intellettuale e della responsabilità rispetto ai governati. Ha poi indugiato s'un libretto di De Gennaro, un diario del 1943, leggendone passi a dimostrazione del suo assunto (approvato da De Gennaro nella sua conclusione): nell'introduzione è una lezione di storia la scoperta d'una resistenza meridionale, non cruenta, non gloriosa di fatti, dimessa nel tono o silente, ma pertinace, convinta, incisiva sul reale.
Per me quel libro è fondamentale per la conoscenza della persona e per un duplice insegnamento, la cui lettura gli è dovuta da adulti e giovani come l'omaggio di quella sera.
Io vi lessi del maturo intellettuale, del provetto operatore sociale e culturale e, molti decenni prima, del milite ventenne, immesso in fatti che poi si sarebbero svelati drammatici, tragicamente “storici”, l'indicazione d'un concetto di patria al di là della forma accidentale, transeunte, che assume un'entità etnica, in un'identità di popolo, che andava emergendo nelle coscienze a confronto con l'arroganza straniera; in un popolo che si mostrava unito ben al di sotto della scorza del conformismo, dentro l'uomo, non nel regime; un popolo dotato d'umanità universale e insieme pieno del sentimento del territorio e della storia comuni.
Lezione di splendida onestà intellettuale nel libretto è la scelta di lasciare al diario la forma di circa sessant'anni prima, senza vestire d'eroismo e di coscienza postuma quel giovane, che, attraversando mezza penisola, annotò come conversevole cronaca il suo sperso/formativo “tutti a casa”.
Penultimo oratore, l'ins. Antonio Panunzio ne ha decritto l'opera cordiale, convinta dentro e per l'UPM, da lui preseduta, il metodo di guida e il recupero dell'opera d'egregi molfettesi in patria e fuori, per portarla alla conoscenza dei molfettesi e mettere quelle personalità in contatto con la loro gente.
Con commozione e serenità di giudizio le parole del celebrato hanno concluso l'incontro con il pubblico, non dimettendo l'ironia nella sua forma più alta d'intelligenza ed onestà, l'auto-ironia, per rilevare la coraggiosa scelta d'onorare un “perdente” e tracciare le occasioni politico-elettorali perdute.