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Una lezione dai missionari: apprezzare quello che abbiamo
15 dicembre 2009

 Imparare ad apprezzare quello che abbiamo: una frase forse ormai diventata banale, forse naturalizzatasi e svuotatasi di significato, nella nostra realtà quotidiana. Ma non nella realtà affrontata dai frati cappuccini che, intrapresa una scelta di coraggio e di altruismo, si impegnano nelle loro due principali missioni in Albania e in Mozambico. Territori, questi, caratterizzati da una condizione di miseria per noi addirittura inconcepibile, anche se, l’uno dopo cinquanta e l’altro dopo trent’anni circa di dittatura comunista, sono in uno stato di lenta ripresa. A raccontarlo a Quindici è proprio Padre Benito De Caro, coordinatore delle missioni, venuto a Molfetta per le quattro “giornate missionarie” con l’obiettivo si una raccolta fondi ma anche di una sensibilizzazione al problema. Quali sono le condizioni sanitarie e di istruzione nelle zone in cui i cappuccini portano il loro aiuto? «Sia in Albania che in Mozambico vi è una fortissima arretratezza. Ma molto spesso si creano situazioni paradossali: sono stati costruiti dei centri sanitari relativamente ben attrezzati, ma mancano i fondi per pagare il personale, che a volte è costretto a vendere tutte le medicine che gli sono state fornite e ad abbandonare gli ospedali per un più fruttuoso lavoro agricolo. Per quanto concerne l’istruzione, spesso la gravità della situazione porta a imporre la promozione del 95% degli alunni. Vengano così formati però insegnanti dalle scarse competenze, che poco o nulla potranno insegnare a chi li ascolta. Si crea dunque un circolo vizioso, che abbassa notevolmente il livello di istruzione generale. Ma anche questa minima istruzione, purtroppo, non è per tutti. Sono in molti a non poter nemmeno raggiungere la scuola o per l’inesistenza di vie di comunicazione (molte famiglie trovano dimora in grotte, raggiungibili solo con cavalli di piccola taglia) o proprio per l’inesistenza di scuole nel loro territorio. Il lavoro di noi missionari, che d’altronde non possiamo contare su fondi cospicui, è dunque quello di collaborare nella creazione di scuole comunitarie: i maestri prestano il loro servizio gratuitamente o quasi (in certi casi con uno stipendio di 10 euro al mese che noi missionari siamo riusciti ad elevare a quindici con il nostro contributo) e alcuni viveri vengono forniti dalla stessa comunità». Quando e come ha deciso di intraprendere questa strada? «In realtà è una decisione che ho preso già da piccolino, ascoltando a messa un frate salesiano. Allora le mie simpatie si indirizzavano prevalentemente verso gli indiani d’America, anche se poi una collaboratrice missionaria mi portò a intraprendere proprio questa strada. Volli entrare dunque in un convento di Barletta, pur avendo contro il volere di mia madre, un po’ scettica di fronte alla mia vivacità. Fui effettivamente espulso in seguito dal seminario e solo imponendomi riuscii a rientrare. Insomma tra il mio carattere vivace e le difficoltà della guerra i miei studi si protrassero a lungo; dunque partii subito per la prima missione. Durante le mie missioni però ho contratto una trombosi tropicale, che mi portò a tre giorni di coma ma che riuscii a superare». Insomma, una scelta difficile, che, come scrive un altro missionario cappuccino, deve essere vissuta all’insegna dell’unica filosofia possibile, quella della pazienza africana: accettare le situazioni ed uniformarsi, cercando di trarne il meglio. Ma anche una scelta quasi assuefante: una volta intrapresa questa via e compresa la necessità di collaborare per una più equa distribuzione delle risorse e un maggior rispetto dei diritti umani, diventa difficile distaccarsene senza provare nostalgia o sensi di colpa.

Autore: Giulia Maggio
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