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Truck center, dopo la sentenza di primo grado L'associazione Linea 5 propone un dibattito domani alla Fabbrica S. Domenico
20 gennaio 2010

MOLFETTA - Il 3 marzo 2008, cinque lavoratori persero la vita in un autorimessaggio di Molfetta, a causa delle esalazioni di acido solfidrico sprigionatesi da una cisterna che dovevano bonificare.
I cinque uomini erano: Guglielmo Mangano, di 44 anni, e, nel tentativo di salvarlo, i colleghi Michele Tasca, di 19, Luigi Farinola, di 37, l’autotrasportatore Biagio Sciancalepore (dipendente di una società di trasporti che lì custodiva i mezzi), di 24, e Vincenzo Altomare, di 64 anni, amministratore della stessa Truck Center. Unico superstite, ferito, fu Cosimo Ventrella.
Secondo l’accusa, fu un’intossicazione acuta da acido solfidrico a provocare la morte dei lavoratori, che si calarono nella cisterna per salvare i propri amici e colleghi.
La sentenza di primo grado del Giudice Monocratico di Molfetta del 26 ottobre 2009 ha accertato le principali responsabilità connesse alla tragedia del 2008.
Le persone ritenute responsabili di concorso in omicidio colposo plurimo e lesioni colpose gravi con violazione delle norme di prevenzione infortuni, sono state condannate a 4 anni di reclusione e 5 di interdizione «dall’esercizio dell’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione di documenti societari nonché di ogni altro ufficio con potere di rappresentanza di persone giuridiche».
Condanne a pene pecuniarie correlate alla colpa organizzativa per le 3 società imputate: 1milione e 400mila euro per la Fs Logistics; 400mila ciascuno per la Cinque Bio Trans e la Truck Center Sas.
Giovedì 21 gennaio, alle 19, ne discuteranno a Molfetta alla Fabbrica di San Domenico: Michele Losappio (Ass. Reg. Lavoro), Enio Minervini (Ass. Linea 5), Ernesto Palatrasio (Rete Nazionale Sicurezza sui Posti di lavoro) e Stefano Sciancalepore, padre di Biagio, una delle vittime, per un’iniziativa organizzata dall’Associazione Culturale Linea5. Modera Onofrio Pappagallo, Presidente dell’associazione.
Pensare che un’impresa possa sottomettere la vita al profitto, al guadagno illegale, lede la dignità non solo di Biagio Sciancalepore, degli altri quattro lavoratori e di Stefano, che oggi è qui con noi a parlare e a lottare, ma dell’umanità in ognuno di noi. Fare del lavoro uno strumento del guadagno spregiudicato significa trascinare la vita in uno scenario mostruoso, in cui i numeri, il denaro, la corsa al profitto, mettono in discussione la sola possibilità di esserci.

Autore: Giacomo Pisani
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