Era l’11 settembre 1919, quando Gabriele d’Annunzio mandò un messaggio urgente a Benito Mussolini, direttore del Popolo d’Italia, così concepito: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile». Poi su un altro foglio aggiunse: «Riassumete l’articolo che pubblicherà la Gazzetta del Popolo e date intiera la fine. E sostenete la causa vigorosamente durante il conflitto. Vi abbraccio». Lasciata la “Casa Rossa” a Venezia nell’impeccabile divisa da tenente colonnello dei Lancieri di Novara coi guanti bianchi, d’Annunzio dopo le 13:30 salpò con un motoscafo dell’Ammiragliato verso Punta San Giuliano, alle porte di Mestre. Qui salì su una Fiat 3A, che lo portò a Ronchi, in provincia di Gorizia, poco dopo le 18. A Ronchi era stanziato un battaglione di granatieri di Sardegna espulso da Fiume dopo gli incidenti tra militari francesi, simpatizzanti dei croati, e italiani, sostenuti dal grosso della popolazione civile, culminati da una parte con la morte di nove soldati francesi e il ferimento di altri undici, e dall’altra con la morte di un civile e il ferimento di tre marinai italiani. Dal momento che il Patto di Londra riservava Fiume alla Croazia, vale a dire alla nascente Jugoslavia, e il presidente americano Wilson era contrario a concedere la città dalmata agli italiani, sette ufficiali inferiori di quel battaglione, desiderosi di annettere Fiume all’Italia, avevano stretto allo scopo un patto e giurando «Fiume o morte!» da Ronchi avevano fatto appello a d’Annunzio. Il vate-soldato sul Corriere della Sera del 24 ottobre 1918, nel primo anniversario di Caporetto, aveva pubblicato la prosa ritmica Vittoria nostra, non sarai mutilata. Dopo l’armistizio il messaggio di quest’opera era stato messo al centro di infiammati discorsi e scritti dannunziani e fatto proprio da moltitudini di nazionalisti, ex combattenti e patrioti italiani, che, sentendosi traditi nelle loro aspettative, abbracciarono la formula demagogica della «vittoria mutilata». All’alba del 12 settembre 1919 il tenente dell’aviazione Guido Keller arrivò a Ronchi con 5 autoblindo Lancia 1Z e 35 autocarri Fiat 15ter sottratti a un deposito militare con le minacce, ma verosimilmente con la complicità dei comandi. Sugli automezzi presero posto 186 granatieri agli ordini del maggiore Carlo Reina e la colonna diede inizio alla cosiddetta “Marcia di Ronchi”. In testa c’erano le autoblindo, seguivano la Fiat decapottabile con d’Annunzio, Reina, Keller, il tenente Riccardo Frassetto dei congiurati di Ronchi, l’autista Basso e l’attendente Italo Rossignoli, e dietro gli autocarri con i granatieri. Al crocevia delle strade per Fiume e Trieste d’Annunzio arringò i compagni di marcia col primo dei suoi numerosi discorsi ai soldati, con quella che avrebbe battezzato l’Orazion piccola in vista del Carnaro. Il poeta-soldato ricordò il volo su Vienna e l’incursione di Buccari, parlò della febbre alta che, anziché menomarlo, lo rinvigoriva, accennò al «compagno di fede e di violenza», cioè Mussolini, al quale aveva promesso di prendere Fiume, e in crescendo concluse: «So che la barra di Cantrida guardano i moschetti e le mitragliatrici delle tre Potenze, ma anche dell’Italia spuria. Spezzeremo la barra. Io sarò innanzi: primo. Ufficiali di tutte le armi, ognuno a capo della sua gente e delle sue macchine. Vi saluto: “Eia, carne del Carnaro! Alalà!”». A poche miglia dalle postazioni italiane, intercettarono la colonna in movimento gli arditi del generale Ottavio Zoppi, che aveva ordinato di fermare d’Annunzio. Ma il colonnello Raffaele Repetto, che li guidava, disobbedì alla consegna e si unì alla marcia. Poco più tardi, a un chilometro dallo sbarramento di Cantrida gli si fece incontro il generale Vittorio Emanuele Pittaluga, comandante del corpo interalleato di Fiume, che intimò a d’Annunzio di tornare indietro, ma l’Imaginifico lo invitò a sparargli sul petto. Il generale, per non essere coinvolto in un incidente che costasse la vita al poeta-soldato, lo lasciò passare. Anche il generale Giacinto Ferrero a Cantrida si arrese alla retorica dannunziana. Alle ore 11:40 del 12 settembre d’Annunzio, alla testa di oltre duemila regolari e volontari accodatisi alla marcia, al grido di «Fiume o morte!» entrò in Fiume da trionfatore. A sera, verso le 18, con l’assenso del Consiglio nazionale fiumano che si sottomise a lui, il poeta-soldato assunse il comando della città e decretò l’annessione di Fiume all’Italia, esclamando: «Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà. Nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume. Fiume che splende come un faro in mezzo a un mare di abiezione». Dopo aver chiesto ai fiumani se volevano confermare il loro voto di unione all’Italia del 30 ottobre 1918 e dopo aver avuto in risposta uno stentoreo “Sì!”, d’Annunzio concluse: «Io, volontario di guerra, combattente, mutilato, rivolgendomi alla Francia di Victor Hugo, all’Inghilterra di Milton, all’America di Lincoln, interprete del sentimento e del volere del sano popolo italiano, proclamo l’annessione di Fiume all’Italia». Seguì un boato di applausi e grida di esultanza. Il 13 settembre 1919 il generale Pittaluga lasciò la città e il presidente Francesco Saverio Nitti in un discorso alla Camera si pronunciò contro il colpo di mano di d’Annunzio, che contraccambiò con il nomignolo di Cagoia e altri epiteti ingiuriosi. Il 14 settembre i contingenti inglese e americano partirono da Fiume senza incidenti e quello francese li imitò dopo pochi giorni. Anche le navi alleate presenti nel porto fiumano abbondonarono la città. In tal modo Fiume rimase presidiata solo dai “legionari” dannunziani. Capo di gabinetto del “Comandante” fu il nazionalista pluridecorato Giovanni Giuriati, che rassegnerà le dimissioni il 19 dicembre 1919 per il rifiuto del Consiglio nazionale fiumano di avallare l’accordo raggiunto sul modus vivendi con il gen. Badoglio e il sottosegretario agli Esteri Carlo Sforza. Intanto il 16 settembre d’Annunzio si era rivolto per lettera al senatore Luigi Albertini, direttore dell’influente Corriere della Sera, chiedendo un avallo alla sua impresa: «Mio caro amico, non so che cosa voi sappiate di quel che accade. Ma lo stesso gen. Bad.[oglio] pensa che questa sia la più bella impresa tentata dopo quella dei Mille. Ho stravinto. Ho tutto in mio potere. E i soldati non obbediscono se non a me. L’ordine è perfetto. La città è tranquilla. […] Non c’è niente da fare contro di me. Bisogna accettare il “fatto compiuto”. Se il gaglioffo lucano [= Nitti] fosse veramente sagace, come dicono a torto, reciterebbe la sua commedia (con più garbo, o con meno volgarità) e lascerebbe operare la virtù dello Spirito. Nessuno mai riuscirà a togliermi di qui. […] Una cosa è ferma: terrò la città, a ogni costo. Terrò le navi. […] Se puoi, secondo coscienza, opporti alla vilissima deformazione e falsificazione giolittiana, renderai un servizio all’Italia vera che è qui». Albertini, però, non condividendo la regressione nazional-imperialistica dannunziana specie sulla questione adriatica, condannò l’impresa fiumana. I rapporti tra i due, allora, s’infransero e d’Annunzio arrivò perfino a vietare la vendita del Corriere della Sera nel territorio di Fiume. In compenso i dadaisti Richard Huelsenback, Johannes Baader e George Grosz inviarono da Berlino al Corriere della Sera per d’Annunzio, con la bizzarra data «Ai 15, 333», un entusiastico telegramma: «Se gli alleati protestano preghiamo telefonare Club Dada Berlino. Conquista grandiosa impresa dadaista per il cui riconoscimento interverremo con tutti i mezzi. L’atlante mondiale dadaistico DADAKO (editore Kurt Wolff, Leipzig) riconosce Fiume già come città italiana. Club Dada». Quanto a Mussolini, va detto che benché il 15 settembre avesse pubblicato su Il Popolo d’Italia un editoriale intitolato Il governo della Monarchia schernisce la passione di Fiume. Governo vile!, in sostanza manteneva nei confronti dell’impresa fiumana un atteggiamento di ambigua cautela. Indignato, d’Annunzio il 16 settembre gli scrisse una lettera piena di rimproveri per non aver agito violentemente contro Nitti e il suo séguito e per non avergli mandato aiuti: «Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi e del popolo italiano. Io ho rischiato tutto, ho dato tutto, ho avuto tutto. Sono padrone di Fiume […] E voi tremate di paura! Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese – anche la Lapponia – avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state lì a cianciare, mentre noi lottiamo d’attimo in attimo, con una energia che fa di questa impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille. Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi? Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi. È un’impresa di regolari. E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette. Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà. Svegliatevi! E vergognatevi anche. Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il dominio del mondo […] Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia [di Nitti] che vi opprime; e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia. Su! Scotetevi, pigri nell’eterna siesta. Io non dormo da sei notti; e la febbre mi divora. Ma sto in piedi. E domandate come, a chi m’ha visto. Alalà». Mussolini a sua volta il 19 settembre lanciò con successo sul Popolo d’Italia una sottoscrizione per Fiume e i legionari, ma il 20 settembre pubblicò sul suo quotidiano la lettera di d’Annunzio del 16, tuttavia eliminando a bella posta tutte le frasi contenenti la l’irata scontentezza e le pungenti accuse del “Comandante” all’infingardaggine mussoliniana. Ma se da una parte l’astuto Mussolini continuò nel suo sotterraneo ostracismo, dall’altra d’Annunzio, in una città affamata dal blocco messo attorno a Fiume dal governo italiano, il 30 marzo 1920 rivendicò il diritto di ribellarsi alla Lega delle Nazioni, il 19 aprile creò la Lega di Fiume per i popoli oppressi e l’8 settembre instaurò a Fiume la Reggenza italiana del Carnaro, promulgando la Carta del Carnaro, ossia la Costituzione del territorio di Fiume, a cui il vate-soldato mise solo il belletto, mentre in buona sostanza fu scritta dall’anarcosindacalista Alceste De Ambris, nuovo capo di gabinetto. La Carta s’ispirava agli ideali della democrazia diretta e conteneva enunciazioni modernamente rivoluzionarie in àmbito sociale e culturale, ma non fu mai attuata, perché il 12 novembre successivo il nuovo governo capeggiato da Giolitti firmò con la neonata Jugoslavia il Trattato di Rapallo, con cui l’Istria e Zara passavano all’Italia, la Dalmazia era assegnata allo Stato slavo e Fiume veniva dichiarata città libera. Su Il Popolo d’Italia dello stesso giorno Mussolini affermò che la soluzione negoziata era «migliore di tutte quelle precedentemente progettate», abbandonando d’Annunzio al proprio destino. Lo sgombero di Fiume fu affidato al generale Enrico Caviglia, che avendo avuto da d’Annunzio una risposta negativa al suo ultimatum, il 24 dicembre fece accerchiare la città. Dopo la tregua natalizia, con quattro giorni di combattimenti, che costarono la vita a 22 legionari, 5 civili e 17 soldati regi, e con vari colpi di cannone sparati dalla nave “Andrea Doria”, due dei quali alle ore 16 del 26 dicembre centrarono il palazzo della Reggenza, dove si trovava d’Annunzio, che rimase lievemente ferito, il generale costrinse i legionari e “il Comandante” a lasciare Fiume tra il 4 e il 13 gennaio successivo. La Reggenza del Carnaro finì a cavallo del giorno retoricamente chiamato dai nazionalisti «Natale di sangue». L’impresa dannunziana non era nata dall’improvvisazione, ma, come scriverà vent’anni più tardi il vituperato Nitti, da «una vera cospirazione con il consiglio e l’aiuto di alcuni generali e ufficiali superiori». Insomma, per dirla con Renzo De Felice, si trattava di «un’operazione politica lungamente preparata da uomini e da forze politiche molteplici ». Ma torniamo indietro di un anno. Sull’onda del clamore giornalistico e dei discorsi entusiastici per la marcia dannunziana su Fiume, si riversò sulla città dalmata una miriade di nuovi volontari, avventurieri, rivoluzionari, repubblicani, ultranazionalisti, reazionari, parassiti, loschi affaristi, artisti, idealisti, cocainomani, meretrici, libertari e libertini, in tutto circa diecimila persone. All’impresa fiumana presero parte, tra i tanti, anche tre molfettesi: Vincenzo Samarelli, Luigi Sciancalepore e Antonio Turillo. Di Vincenzo Samarelli si sa soltanto che fu uno dei volontari fiumani. Di Luigi Sciancalepore si può aggiungere che ai tempi di Fiume era sergente. Era nato a Molfetta il 2 gennaio 1895 in Via Forno n. 57 dal trentottenne Cosmo, bracciante, e da Luisa Magno, casalinga. Di Antonio Turillo risulta che fu presente a Fiume come ardito. Aveva visto la luce a Molfetta il 25 aprile 1897 in Via Umberto n. 6 dal ventiduenne Michele, calzolaio, e Gaetana Aiello, casalinga. Con essi si ritrovarono a Fiume più di 240 pugliesi, tra cui il quattordicenne tarantino Raffaele Carrieri, futuro poeta e critico d’arte, che allora rimase ferito, e il diciottenne tranese Nicola Pastina, futuro antifascista, che nella dannunziana «città olocausta» fu inviato speciale del Corriere delle Puglie. Tra i primi a catapultarsi nella città dalmata, nel settembre del 1919, fu l’antinittiano Filippo Tommaso Marinetti, che nello stesso mese tenne un discorso sull’opera artistica e politica di d’Annunzio al banchetto degli arditi. Marinetti animò il gruppo futurista fiumano e alcuni anni dopo scrisse il Poema di Fiume, rimasto a lungo inedito. Definì gli autori della storica impresa «disertori in avanti», cioè traditori dell’establishment proiettati verso futuro, in polemica con chi li riteneva volgarissimi disertori militari. Il fondatore del futurismo si fermò nella città solo per una ventina di giorni, forse deluso di non poter ricoprire un ruolo da “primadonna”. Corsero voci di dissensi a Fiume fra d’Annunzio e Marinetti, ma quest’ultimo le smentì almeno formalmente con una lettera del 19 ottobre inviata al Giornale d’Italia. Accorse a Fiume anche Ricciotto Canudo, scrittore, cineasta, saggista e critico cinematografico di Gioia del Colle, fondatore dell’estetica cinematografica, frequentatore a Parigi dei cenacoli dell’avanguardia letteraria e artistica, amico di Picasso e Apollinaire, che lo chiamava scherzosamente le Barisien. Giunse nella città dalmata nel febbraio del 1920 come presidente della Fédération des volontaires étrangers e il 7 marzo organizzò una parata aerea di propaganda col lancio di volantini che esprimevano il sostegno del suo comitato all’impresa fiumana. Venne poi a Fiume con spirito patriottico Arturo Toscanini, per dirigere un concerto e incontrare il poeta-soldato, restando fino al mese di novembre del 1920 per una serie di concerti con musicisti milanesi. Presente a Fiume sin dagli inizi fu anche il futurista e sansepolcrista Mario Carli di Sansevero, capitano degli arditi, che l’11 maggio 1919 fondò con lo squadrista Ferruccio Vecchi L’Ardito, settimanale dell’Associazione Arditi d’Italia, e dal 1° febbraio 1920 varò e diresse con gli elogi di d’Annunzio il settimanale La Testa di ferro, col sottotitolo Libera voce dei Legionarii di Fiume, poi diventato Giornale del Fiumanesimo col trasferimento a Milano caldeggiato dal Comando fiumano, che non gradiva la smaccata propensione di Carli per il bolscevismo, anche se il governo dannunziano era stato tra i primi a riconoscere l’Unione Sovietica. Nell’agosto del ’20 Carli non mancò di attaccare su La Testa di ferro il «rinunciatario» Gaetano Salvemini, quando passò nel gruppo parlamentare misto. Tre anni dopo diventerà fascista intransigente, fondando e dirigendo a Roma con Emilio Settimelli il quotidiano politico L’impero. Non mancarono a Fiume gli stranieri, come il poliglotta e scrittore americano Henry Furst, amante dell’alcol, del gioco e dei bei ragazzi, che fu promosso sottotenente nella legione dalmata e fu destinato dal “Comandante” all’Ufficio Relazioni Esteriori; come il letterato e musicista belga Léon Kochnitzky, incaricato come responsabile dello stesso Ufficio di allacciare collegamenti con la stampa francese, e come il giornalista e scrittore giapponese Harukichi Shimoi, ardito nella Grande Guerra, che nella città dalmata fu ufficiale di collegamento tra d’Annunzio e Mussolini, di cui trasportava segretamente le lettere sfruttando il suo passaporto diplomatico. Uno dei personaggi più bizzarri presenti tra le file fiumane fu il barone milanese Guido Keller von Kellerer, provocatorio nudista e audace pilota nella squadriglia di Francesco Baracca, nominato «segretario d’azione» da d’Annunzio, che, colpito dalle sue capacità e dalla sua stravaganza, gli permetteva di dargli del tu. Formò “La Disperata”, la compagnia destinata alla guardia del “Comandante”. Col capitano Mario Magri iniziò le azioni piratesche degli “Uscocchi” dannunziani per l’approvvigionamento di Fiume, colpita dall’embargo del governo italiano. Vagheggiava la «Città di Vita» degli artisti e per gli artisti. Col tenente Giovanni Comisso, che sullo sregolato erotismo fiumano pubblicherà nel ’24 Il porto dell’amore, Keller fondò a Fiume il gruppo “Yoga”, «Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione», sodalizio di creativi e buontemponi demolitori della morale comune. Keller e Comisso progettarono senza successo addirittura il rapimento di Luisa Baccara, l’amante di d’Annunzio, che secondo loro lo influenzava negativamente. Restò memorabile, dopo il Trattato di Rapallo, il volo di Keller su Roma, durante il quale il 14 novembre dal suo biplano Ansaldo S.V.A. lanciò sul Vaticano rose rosse per San Francesco, sul Quirinale rosse rosse per la regina e su Montecitorio un pitale ornato di rape in segno di spregio. Consumatore abituale di cocaina, come altri aviatori, non disdegnava l’amore di gruppo, soprattutto con partner maschili. Morirà nel ’29 in un incidente stradale e sarà sepolto al Vittoriale per volere di d’Annunzio. Alcuni aspetti dell’avventura fiumana sono giustamente ritenuti da alcuni studiosi l’antecedente più rappresentativo della rivoluzione culturale e sessuale del ’68, ma essa fu soprattutto la fucina degli atteggiamenti, della retorica, dei rituali e dello stile ripresi dal fascismo. Espressioni come Me ne frego!; Eja! Eja! Eja! Alalà!; A noi!; Chi s’arresta, è perduto; Marciare, non marcire e Nudi alla meta, rese popolari da d’Annunzio e dai suoi seguaci, furono fatte proprie da Mussolini e dai fascisti. Ancora più dettagliate sono le osservazioni politiche di Salvemini, che nella monografia Le origini del fascismo in Italia, avverte: «la “marcia su Fiume” del 1919 fu il precedente della “marcia su Roma” del 1922. […] La pratica di costringere chi portava nel cuore sentimenti impuri a bere l’olio di ricino fu inventata dai “legionari” di D’Annunzio a Fiume. Il fez, la camicia nera, il pugnale e la mazza ferrata, erano stati durante la guerra l’armamento distintivo degli “arditi”, e dagli “arditi” furono importati a Fiume; sostituirono soltanto la crudele mazza ferrata con un più gentile manganello. La canzone “Giovinezza” e il cosiddetto saluto romano, fatto sollevando per aria la mano destra, erano durante la guerra la canzone e il saluto degli arditi e furono adottati a Fiume. Le adunate all’aria aperta, nelle quali il capo pone delle domande e la folla, alzando la mando destra, grida “Sì” o quanto altro è stato prefabbricato, furono usate da D’Annunzio a Fiume. La città anticipò sino al più piccolo particolare tutto quanto doveva accadere in Italia dopo la conquista fascista». Nelle smodate esaltazioni dell’impresa dannunziana tutto questo non va dimenticato. © Riproduzione riservata
Autore: Marco Ignazio de Santis