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Torna l’autunno No ai seminatori di odio
15 settembre 2023

Le stagioni si avvicendano e quella che sembrava non dover più terminare, quella che ricorderemo per il caldo più bruciante degli ultimi anni, sta lasciando il passo ad altro tempo della nostra vita quotidiana: torna l’autunno. Ogni autunno porta con sé la storia di tutti gli alberi che vivono accanto a noi, malinconicamente affascinanti, con le loro foglie gialle, marroni, arancioni, rosso scure. Molte di loro si forzano a restar sui rami, ma son poi destinate a cadere, “come i ricordi, e i rimpianti” (Jacques Prevert “Les feuilles mortes”); sotto i nostri passi tuttavia crepitano allegre e, anche se sembrano morte, continuano a vivere in modo diverso. Irresistibile spettacolo per Greci e Romani: a Glauco troiano e Diomede acheo, nel VI canto dell’Iliade, lo spettacolo degli alberi in autunno suggerisce la convinzione che tutti gli uomini siano come foglie e al poeta Mimnermo che la caduta delle stesse è paragonabile alla stessa sorte della nostra esistenza. E infiniti sono nella letteratura i riferimenti, da Dante a Leopardi fino ad Ungaretti. E’ stagione che, con i colori di ciò che muore, ci dona, sotto lo sguardo del tempo, un dialogo spirituale con la natura e la sua bellezza. Apparentemente triste, ci invita a contemplare la sua immagine, con passione per i colori. Fascino del foliage, pari all’ hanami giapponese in primavera, è spettacolo meraviglioso: meriterebbe che tutti andassero nei boschi più vicini per vederlo, assieme a quello delle prime nebbie che salgono o scendono sulle colline delle nostre Murge. Non è stagione triste. Pensate, se si va nei boschi, è possibile fare degli incontri con gnomi e fate: spuntano improvvisamente da sotto i cardoncelli. Dirà Orazio: “si spargerà di molte foglie il bosco e in riva al mare ci saranno le alghe, inutili”. Ma se le foglie sono morte, vive sono altre cose. Nell’alba incerta di una stagione che sta tra l’estate e l’inverno, nei primi mattini, avvinto ai silenzi è vivo il giorno che arriva, viva la pioggia, il giardino, la casa, il lampadario, la tazza del latte e, se guardi attraverso i vetri della finestra (hai discosto la tenda per far luce nella stanza), l’orizzonte si perde nell’infinito dell’atmosfera. Per andare al lavoro ci accompagna a prendere l’auto, la siepe di biancospino, accanto al cancello: i fiori bianchissimi (ricordate? le “Brocche di Pascoli”) son diventati, in una notte, piccole bacche d’un acceso colore rosso. E, come figuravano nelle nature morte disegnate dagli artisti, o nei dipinti del Trecento, è tempo d’uve e del ricordo di chi c’era e ora non c’è più, se non nella silenziosa città dei cipressi. Non a caso, autumnus è legato al verbo augere (accrescere, arricchire), derivazione indubitabilmente dovuta all’idea di abbondanza dopo le arsure estive. Si fa festa con olive, frasche che bruciano nei campi, con uve e castagne. Ci viene in mente il “Cesto di frutta” dipinto da Caravaggio. Un semplice cestino di vimini, qualche mela pere fichi e tre grappoli d’uva su un fondo giallo spento; in primo piano un accenno a una tavola di legno su cui si proietta la breve ombra del cestino, niente altro. Eppure questo è un quadro mito perché con lui nasce la natura morta. La frutta è dipinta con poco colore sul pennello, in modo da definire ogni minimo particolare, dall’accartocciarsi di una foglia macchiata già dai segni dell’autunno sino alle gocce di rugiada. L’avanzare della luce è bloccata dai fichi e dall’ uva nera e dalle foglie già secche all’estrema destra che spariscono negate dall’ombra. Possiamo aggiungere ancora a commento di questa emozione quella di un haiku giapponese “Luna piena d’autunno / sulla stuoia di paglia / l’ombra di un pino”. Ahimè, tutto sarebbe meraviglioso, se improvviso non comparisse il granchio blu, il Portunus segnis, (diverso dal cugino già presente nei nostri mari, il Callictenes sapidus), giunto a noi da mari lontani, ma con capacità incontrollata di riprodursi a danno di altre specie soprattutto di cozze e vongole, di cui fa strage. Un autentico generale! E’ arrivato fra noi come un alieno e s’aggira, ormai allo scoperto, fra le forze armate “normali” di una nazione che vive oggi in un difficile equilibrio, fra passato pieno di valori e futuro gravido di incognite e rischia di danneggiare l’ecosistema democratico del mare, se lasciato crescere nell’indifferenza degli altri granchi e del popolo del mare italico. Urla contro le minoranze di pesci che hanno le squame scure sulla superficie del corpo, anzi per essere più sicuro che sono totalmente diversi da lui, fa finta di appoggiarsi per caso e li tocca, li palpa e si convince di quello che pensa: non sono pesci normali, hanno la pelle rugosa. Identifica subito quegli altri pesci che vanno sempre in giro a dire che c’è un grave problema ambientale e li definisce pesci eco-ansiosi, sostenitori di trote e anguille, “neuroni malandati”. Eppure è così semplice: per mitigare gli effetti dei problemi sul clima, lui il granchio blu, propone di non piantare più alberi ad alto fusto ma soltanto cespugli, così quando cadono non fanno danni. Non parliamo poi di quegli altri pesci che lui chiama “diversi” dai pesci “normali”: dice con forza che i galli non fanno le uova, e che se sei un uomo barbuto non puoi essere una donna bionda. E i pesci donne? Sono nate per prendersi cura a tempo pieno dei figli: non si spenderebbe più un euro per gli asili nido. E sempre a proposito di donne e razza asserisce che ci dobbiamo convincere: Paola Egonu non ha quei tratti somatici che possono rappresentare l’italianità, insomma quella caratteristica inconfondibile “che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri”: lei, Paola Egonu, è invece come un panino del McDonald’s. Peccato: poteva essere, tutto sommato, un bellissimo autunno e invece è arrivato questo granchio blu a seminare buio (nero, assenza dei colori) e odio (contrario del rispetto e dell’amore per tutto ciò che è attorno a noi). Che facciamo? Finta di niente? Io no! Io sto con Paola! © Riproduzione riservata

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