Techné, arte in sinergia
Un valore aggiunto per un allestimento che non sia mero intrecciarsi di percorsi artistici in sé per sé divergenti è la capacità delle creazioni esposte di rivelare sinergie inattese, indici del fatto che quel vernissage sia frutto di un itinerario concettuale comune, di una progettazione di pregio. È il caso della collettiva Techné (dal greco, arte) arte in sinergia, inaugurata il 24 gennaio presso la Sala dei Templari. Curatrice della mostra l’Architetto Angelantonia Soriano, titolare, insieme a Massimiliano Palazzo, dello studio architettonico “Palazzo Soriano” (la Soriano, Palazzo e Pasquale Modugno sono stati recentemente segnalati al concorso di design “Le 5 Stagioni”, per l’ideazione del concept Pizza in Piazza). Negli intendimenti dell’allestimento la volontà di segnare “il prologo di un confronto dialettico sulle tematiche dell’arte contemporanea”. La navata destra è trasfigurata in un rincorrersi di suggestioni pittoriche, scultoree e fotografiche tutt’altro che monadiche. Momento incipitario della mostra il metaforico Viaggio di Vicky Depalma, che, sotto l’egida di Italo Calvino – come Ariosto viaggiatore fantastico –, offre una prima chiave di lettura delle creazioni esposte, che schiudono lo sguardo sul mondo, sulle realtà metropolitane a tratti alienanti, sulle città invisibili. Sara Gastaldo oppone allo straniamento della società contemporanea, alla chiassosità vacua degli odierni media, le sue pregevoli miniature in cartoni telati. Il vorticare del mondo è esorcizzato nella parcellizzazione della realtà circostante, analizzata al microscopio dall’artista, che indugia su oggetti di ridotte dimensioni. Vessilliferi di una quotidianità minimale apparentemente insignificante, ma in realtà foriera di potenzialità salvifiche, mollette, pestelli e affini sono isolati nella loro still life che diviene alternativa al fragore, alla volgarità, all’insensatezza che imperano ovunque. Michele Depergola esplora le molteplici possibilità espressive insite nel legno d’ulivo, avvalendosi laboriosamente di scalpello e mazzuolo al fine di affrancare, michelangiolescamente, per sottrazione le infinite forme imprigionate nel legno di masso. È l’emozione di un attimo a guidarne la mano, esperta nell’esaltare le venature già presenti nella materia. Poi possono affiorare suggestioni di altra natura, come nell’attesa di alcuni individui dinnanzi a una porta serrata, che ha sapore di kafkiane reminiscenze, o nella scelta del soggetto della Pietà, di origini oltremontane e definitivamente consacrato nella nostra penisola proprio dal Buonarroti. Protagonista delle creazioni di Depergola la figura umana, quasi mai raffigurata in solitudine: è il caso della rappresentazione della Tolleranza, caleidoscopio di volti dal dialogo a tratti accidentato, o magari di Ci sono anch’io, felice espressione dell’umano egotismo, dell’inesausto anelito al Dasein. Per l’occasione lo scultore barese ha esposto anche interessanti elementi d’arredo, da tavolini da soggiorno a piantane a lampade dalle forme estrose, in nome di un’arte non disgiunta da esigenze funzionali. Daniele de Gennaro affascina con la sua fotografia che si dispiega lungo due direttrici: essa è indagine dello spazio, nel suo indugiare tra le architetture a evidenziarne il nitore formale e l’armonia, e scandaglio delle molteplici possibilità dell’individuo di rapportarsi alla spazialità. De Gennaro privilegia da un lato le città d’arte e dall’altro non luoghi quali l’ambiente metropolitano o le sale d’attesa di aeroporti, plaghe nelle quali anche l’affollamento tradisce il vuoto di un’attesa irrisolta e la fondamentale solitudine cui l’umanità è condannata. Anche la rappresentazione della saggezza non sembra sfuggire a tale sterile isolamento: un vecchio cui nessuno desidera prestare ascolto e una statua di marmo, forse una Minerva o un’altra divinità depositaria della sapienza, appaiono relegati nella medesima dimensione solipsistica. Incroci di strade non si traducono in incroci di individui, sempre prigionieri di una distrazione frettolosa. All’obiettivo di de Gennaro non difettano però le corde dell’ironia, come quando si sofferma su “due calzini in via dei Servi”, a rimarcare l’unico – umano – elemento di quasi/ disordine in uno scenario di assoluta compostezza. Vicky Depalma ci stupisce per qualità estetica e complessità concettuale. Il suo percorso è ispirato alle calviniane “città invisibili”. Anche le città della Depalma hanno tutte nomi di donna; i suoi quadri materici rappresentano un felicissimo connubio tra arte e scenografia, disciplina di formazione dell’artista. Un caso emblematico è quello di Despina, “confine tra due deserti”, città che “si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare” e che assurge a luogo del desiderio, perché promette, falsamente, un cambiamento di status corrispondente alle aspirazioni di chi la scruti in lontananza. La Depalma ne coglie bene l’essenza soggettiva, il suo esser potenzialmente ovunque, persino nelle nostre contrade (si veda in tal senso la linea di confine bianca, che allude ai nostri muretti a secco), e la natura illusionistica, dichiarata a chiare lettere in quel mare che parrebbe una quinta teatrale. Di estremo interesse anche le fotografie esposte, che spaziano da Torde, in cui una casa diroccata nel bel mezzo di un quartiere ristrutturato assurge a emblema dell’insipienza umana, alla suggestiva Fillide, sino a pervenire all’ingegnosità di Ipazia, dove l’attesa in cima al pinnacolo più alto diviene simbolo del disperato tentativo di ricomporre razionalmente il caos che ci circonda. Ricomposizione il cui significato forse è celato nel casuale allineamento a mo’ di scacchi di sparute pietre sulla grata di un pozzo o in quei grovigli di funi presso lo scalo molfettese che l’artista si sofferma ossessivamente a fotografare. A noi sembra che abbia interiorizzato e mellificato l’assunto gaddiano secondo il quale mondo e realtà altro non sono che garbugli di inestricabile natura.
Autore: Gianni Antonio Palumbo