Uscì cautamente dal portone, si ricordò appena in tempo che era stato verniciato il giorno prima, e percorse in fretta i pochi metri che la separavano dalla piazza che le apparve stranamente vasta, come se si dilatasse in quel momento sotto i suoi occhi. Si fermò sul marciapiede, era uno di quei momenti fermi, immoti, che riuscivano ad estraniarla dalla realtà che la circondava, l’aria era gelida, un’aria da neve. Nel cielo una luce livida, abbagliante, oltre la cupola che fioriva, gonfia e sospesa, sull’apertura di una strada laterale, grossi blocchi di nuvole d’acciaio la sovrastavano e accelerò il passo verso la stazione. Ragione apparente il tempo minaccioso, ragione inconscia che le si rivelava lentamente, il ricordo di un sogno fatto anni e anni prima e che era tornato più volte: c’era lei bambina che correva, attraversando anche allora una piazza, e le sagome scure degli alberi del giardinetto antistante la casa si profilavano minacciose sotto le nuvole grigie al crepuscolo. Si fermava impaurita, ansante dinnanzi al portone chiuso che nessuno apriva... perché non aprono... mamma perché è uscita? e la piazza era sommersa lentamente dall’ombra di un’enorme nuvola plumbea i cui contorni ricordavano vagamente l’atteggiamento di Dio Padre nella separazione delle acque, della Sistina. Lei si fermava, incerta se essere felice che Dio le apparisse, perché quella grande nuvola era Dio o atterrita dalla voce metallica e distante che risuonava a un tratto nella vastità della piazza e pareva provenire da un altoparlante e invece veniva dalla nuvola che era Dio, ne udiva il suono ma non capiva le parole. Strano come si possano ricordare bene le sensazioni di un sogno infantile. Comunque ora non aveva più paura – forse – della nuvola-Dio, anzi quel vago senso di angoscia che le davano quelle nuvole livide le piaceva. Sorrise fra sé ed entrò decisa nell’atrio illuminato, attraversò il sottopassaggio, il treno era già pronto, oltrepassò lentamente, nonostante il freddo, le vetture di seconda. Ecco la prima classe, la vettura era quasi vuota. Era sempre una sensazione piacevole quella di entrare, conscia dei propri diritti, in uno scompartimento di prima classe. C’erano i sedili verdi di velluto con le foderine bianche di bucato; anche i sedili rossi le piacevano, quelli grigi a righe marrone no, non erano sontuosi abbastanza, non erano da “prima classe”. Puerilità, residui di un’adolescenza complessa di una che si imponeva di essere superiore ma a cui restava il desiderio raramente soddisfatto, spesso volontariamente inappagato, delle cose belle e preziose, delle cose costose, comunque questo le permetteva di godere anche del fatto di potersi sedere in uno scompartimento di prima classe. Sorrise fra sé a queste idee. Rendersi conto di tutti i moti del suo animo, di tutti i pensieri che le passavano per la testa, specie dei più stupidi e incongrui, essere sempre in posizione critica di fronte a se stessa, la esasperava e la divertiva insieme. Aprì la porta di uno scompartimento vuoto, c’era poca gente nella vettura, gli uffici erano ancora aperti, era sempre un po’ un’avventura infilarsi in uno scompartimento: chissà chi avrebbe potuto entrarvi, chi poteva già esserci. Che idiozie! proprio per rendersi superiore a questi futili pensieri finiva per entrare in uno scompartimento vuoto. * * * Un salto di anni, tanti, possibile?... le sembrava di aver attraversato ieri la piazza della stazione con un cielo simile a questo. Ancora le nuvole grigie e basse al crepuscolo le davano un vago senso di angoscia, pur se il Dio biblico e minaccioso che vi vedeva nella sua fanciullezza era stato da tempo sostituito dal Cristo misericordioso ed esigente della sua giovinezza e della sua maturità. La sua predilezione per gli scompartimenti con il velluto rosso, e possibilmente vuoti, continuava, non ce n’erano quasi più, sostituiti dagli scompartimenti a littorina, con corridoio centrale e sedili da una parte e dall’altra, quando riusciva a trovarne uno ci si infilava subito, come in questa serata di pioggia, tanto simile a quella di tanti anni prima. Che incredibile sensazione di “dejà vu”! Come allora aveva con sé un rivista e come allora, quando viaggiava per i suoi studi, l’aperse su un articolo di politica estera. Si concentrò per qualche minuto nella lettura, l’articolo – pur nella sua problematica difficile e inquietante – era scritto con chiarezza e sobrietà da un giornalista che riteneva attendibile e nonostante la stanchezza della giornata di lavoro si accorgeva di procedere agevolmente nella lettura impegnativa. Era talmente presa che quasi sobbalzò nel sentire aprirsi la porta dello scompartimento, sollevò appena lo sguardo, un uomo alto e robusto, di media età, si slacciava goffamente ma con decisione l’impermeabile foderato. Il treno cominciò lentamente ad avviarsi, erano già fuori dalla stazione, la luce incerta del crepuscolo era ormai sostituita dalle luci che si erano accese automaticamente nello scompartimento ma non riusciva più a leggere, quella presenza la distraeva, pur senza disturbarla. Guardò ancora fuggevolmente l’uomo: poteva essere oltre la cinquantina, alto, imponente, con gli occhiali dalla stanghetta dorata e un abito sobrio, ma evidentemente di buon taglio, la osservava con semplicità. “Sembra che stia per nevicare”, disse la voce di fronte a lei. Sorrise appena distaccando gli occhi dal finestrino e volgendoli verso l’uomo. Assentì lievemente: non voleva incoraggiare una conversazione e non voleva apparire sgarbata. “Mi sembra stia piovendo”, disse lei guardando una goccia che, infrangendosi contro il vetro – il treno era ormai in corsa -, si moltiplicava in minuscole perline che si disponevano in linea retta. Un’altra goccia... un’altra retta che si incrociava obliquamente con la prima: un gioco bellissimo, una geometria affascinante e varia che le piaceva immensamente. “Non è pioggia, è nevischio”, replicò la voce. Questa volta, anche se con sforzo, sorrise più apertamente, con gratitudine, si aggrappò alla voce che la liberava dai suoi pensieri. Adesso le faceva piacere che l’uomo le parlasse, le impediva di farsi prendere dai ricordi, cose lontane, passate, da rimuovere. “Sei sempre tu – disse l’uomo imprevedibilmente – è evidente che stai pensando a tutt’altro”. C’erano divertimento e una sorta di tenerezza nella sua voce. Lei lo guardò, dapprima allibita, poi con lo sguardo che gradualmente si illuminava: “Matteo! Ma sei proprio tu? Non è possibile!” “Già, sono proprio io, lo stesso Matteo di venti chili fa”, dice lui ridendo, e si china verso di lei prendendo fra le sue le mani che lei gli porge d’istinto. Si guardano, si cercano, si ritrovano fra i segni che il tempo ha impresso sui loro volti. “Speravo che avresti preso questo treno, ti ho cercata, ho scoperto dove lavoravie approssimativamente i tuoi orari. Dovevo vederti”. Lo dice d’un fiato. “Ma perché ora, dopo tanti anni?” “Lascio l’Italia definitivamente. Non ho più niente che mi leghi qui”. Lei non parla, aspetta che lui continui, che spieghi. “Cosa hai fatto in tutti questi anni – chiede – ti sei poi specializzato?” “Dopo il tirocinio, che frequentavo quando viaggiavamo insieme, di specializzazioni ne ho prese diverse. Mi sono trasferito nel Veneto, ho percorso tutta la carriera, da aiuto a primario e poi a direttore di una clinica privata fino alla libera docenza”. “ Caspita, sei proprio un barone della medicina, dovrei darti del lei”. “Non cambi mai – sorride lui – piuttosto tu: ho saputo dei tuoi successi in arte. Ne hai fatta anche tu di strada”. “E la tua famiglia?”, azzarda lei. “Non ho più nessuno dei miei. Forse ricordi che avevo già perduto mio padre, all’epoca in cui ci frequentavamo. E’ riuscito solo a vedermi laureato in medicina, era il suo sogno, e il figlio medico non ha potuto far niente per lui. – C’è amarezza nella sua voce. – Mia madre è morta dieci anni fa. Mi sono sposato dopo la prima specializzazione, ho perduto mia moglie tre anni fa – continua lui senza alcuna enfasi – non abbiamo avuto figli. E’ stata una buona moglie e posso dire di averla veramente amata, anche se ho continuato a pensare che la mia donna eri tu”. Lo guarda, incapace di parlare, per qualche minuto. “Ma non mi hai mai cercata, pensavo fossi ancora furioso con me per come ti avevo trattato, o meglio, pensavo che mi avessi ormai dimenticata”. “Come avrei potuto...”. “Sì, ma se volevi vedermi, me lo hai detto tu, avresti potuto telefonarmi. O nel Veneto non ci sono telefoni? O magari scrivermi”. “Scriverti... e perché? Avevo capito, e il tempo mi ha dato ragione, che volevi, dovevi essere libera, che sei uno spirito fondamentalmente indipendente. Apparentemente sei tradizionalista, credi davvero nella tradizione, a volte sei anche conformista, sì non guardarmi male, forse non è il termine esatto, ma dentro hai bisogno di essere padrona di te, dei tuoi pensieri, delle tue emozioni. Poi la tua famiglia ti è sempre bastata, ha colmato le tue esigenze affettive”. Lo guarda, e questa volta è lei che sembra ansimare un po’ ma come può sapere tante cose di lei, averle letto dentro, aver profetizzato fino a questo punto? “Infine, perché scriverti? Perché la mia lettera facesse la fine delle altre?”. “Quali altre, se non mi hai mai scritto! Ti confesso che nei giorni prima di partire a mia volta per completare i miei studi, ho sperato tanto che lo facessi”. Questa volta è lui che la guarda, incapace di parlare. “Te ne ho scritte tante di lettere, sempre aspettando una tua parola, un tuo rigo che non è mai arrivato”. “Ma dove le hai spedite? Sia a casa che lì, dove studiavo, non ho mai ricevuto niente da te”. “Arianna mi aveva detto che tuo padre, di cui conoscevo la severità, non te le avrebbe date”. “Cosa?! – interrompe lei, esterrefatta. Non c’è stata mai censura in casa mia”. “... e nell’istituto dove saresti stata a pensione non potevi ricevere posta”. “Ma che assurdità, non ero in carcere, ero in un bellissimo pensionato universitario dove ho ricevuto quintali di lettere dai miei, dagli amici... mi prendevano in giro per questo”. “Così le lettere per te le ho date a lei, ad Arianna” “Matteo, Matteo, che cosa incredibile, non me ne ha data una, e quando le ho chiesto di te e l’ho pregata di darti il mio indirizzo – volevo che mi scrivessi – mi ha detto che non ti incontrava più in facoltà e non sapeva dove trovarti. Non ho insistito, rispettando i suoi sentimenti”. “Cosa c’entrano i suoi sentimenti?”, quasi l’aggredisce lui. “Non mi dire che non sapevi che era innamorata cotta di te”. “Di me?!”, questa volta è lui allibito. “Ho aspettato almeno per un paio di mesi una tua lettera che non è mai arrivata, poi mi son buttata a capofitto nei miei studi e...”. “Già, è tipico di te buttarti a capofitto in quello che fai”, lo dice con ironia non priva di una certa amarezza. “Le tue lettere allora, che fine avranno fatto?”. “Mi ha detto che le avevi distrutte senza aprirle”. “Senti – sbotta lei con irritazione – potevo essere un tipo strano o una carogna, ma come hai fatto a pensare che lo fossi fino a questo punto?”. “L’umiliazione mi annebbiava il cervello, evidentemente. Del resto quando ripensavo alla mia poesia...”. “Non dirmelo – interrompe lei – ci ho ripensato anch’io tanto spesso vergognandomi come poche volte nella mia vita”. Per un momento entrambi rivivono la scena: lui che le dà una poesia scritta per lei, scritta di getto, ancora con cancellature e correzioni, e lei che dopo aver letto i primi versi e aver pensato che era bella, proprio bella, gli dice chissà per quale impulso maligno: “Potevi almeno scriverla in bella copia!”. Si era ripreso il foglietto ed era sceso dal treno alla prima fermata, che non era la sua, sbattendo la porta dello scompartimento. Non si erano più rivisti perché lei era partita nei giorni seguenti per il Nord. “Perdonami, Matteo, – sussurra quasi implorando, quando si è giovani certe cose possono ferire in profondità – ti ho chiesto mentalmente perdono tante volte”. “Eravamo così giovani... – la assolve lui – ed ho così tanti motivi di gratitudine per te, mi hai reinventato – sorride lui – se tu sapessi quanto hanno contato per me le nostre conversazioni”. “Dì pure litigate”, interrompe lei. “Anche e soprattutto quelle. Ti ricordi tutti i discorsi sulla solidarietà, sul volontariato? Eravamo in anticipo sui tempi” “... e le tue ironie”. “Sì ma ironizzavo solo per provocarti, per vedere fino a che punto ci credevi, e intanto le tue parole, le tue certezze scavavano dentro. Quante volte ci siamo confrontati sui temi fondamentali: Dio, la vita, gli altri... così, senza che tu lo sapessi e senza che me ne rendessi conto, quelle tue parole hanno messo radici. Poi con Sandra, mia moglie, che un po’ si lasciava condurre, un po’ conduceva, abbiamo cominciato a fare vacanze alternative. Con Medici senza frontiere siamo andati in vari Stati dell’Africa, in America Latina, in India, insomma abbiamo girato il mondo. E’ stato bello”. Lei ascolta senza fare commenti, non potrebbe, anche se lo volesse, per il nodo che le stringe la gola, pensa che Sandra, nonostante la sua morte prematura, sia stata una donna fortunata. Guarda fuori dal finestrino, è buio ormai, sono in aperta campagna. Non piove più e la corsa del treno ha cancellato le gocce di pioggia, ora il vetro è appannato dal calore interno che li isola come se fuori ci fosse la nebbia. Ripensa alle sue parole: “Non ho più niente che mi leghi qui...”.“Ho colto questo stelo di brughiera L’autunno è morto devi ricordare Non ci vedremo più su questa terra Odor di tempo stelo di brughiera Ricorda bene ch’io ti aspetto ancora” (lascia perdere Apollinaire, ora – le sembra di sentire lo stomaco contrarsi – ma non ha senso!).“Dove andrai?”, è quasi un singhiozzo. La guarda, ed è ancora come se le leggesse dentro. “Vado in Sudan, come primario in un ospedale che si va costruendo con i contributi anche minimi di tanta gente di buona volontà. Come vedi faccio carriera al contrario – dice ridendo – anche il mio stipendio è quasi simbolico. Ho venduto le mie proprietà che non erano poi molte, e forse ricordi che non mi è mai servito troppo per vivere bene: libri, dischi, ora ci sono i CD, ancora più facili da portare con me, la mia chitarra, e naturalmente il mio essere medico, non mi serve altro. Ho tenuto solo una casetta in campagna, era il nostro rifugio. Con Sandra ci andavamo nei fine settimana e l’immersione totale nella natura riusciva a scaricarci della tensione del nostro lavoro”. Lei ricorda in un flash-back di una quasi angosciante lucidità un giorno di tanti anni prima. Il treno era un locale e aveva fatto una sosta imprevista in aperta campagna, il controllore era passato per i vagoni avvertendo che chissà per quale inconveniente si sarebbero fermati per almeno mezz’ora. Era primavera, faceva caldo e lui l’aveva sollecitata a scendere, come molti passeggeri stavano già facendo. Strano con quanta chiarezza ricordasse il profumo dei fiori di camomilla lungo i binari, il verde tenero dei germogli sugli alberi vicini, e il suo vestito, indossava un abito bianco, appena aderente in vita e sui fianchi, con una fascia trasversale blu. Strano anche che ricordasse così bene un suo abito, generalmente non ricordava neanche quelli che aveva nell’armadio, e non è che ne avesse poi tanti. C’era un sogno che ogni tanto tornava: entrava in una stanza e c’era un armadio, sempre un grande armadio di quelli antichi con uno specchio nell’anta centrale più grande di quelle laterali e lei lo apriva e vedeva tanti abiti che sapeva essere suoi e che non ricordava più, e con gioia riconosceva tessuti e modelli di tanti anni prima, ma sempre belli, che ritrovava con una sensazione di ricchezza, di pienezza. Il simbolismo del sogno è evidente che non aveva niente a che fare con la moda o con il desiderio inconscio di un guardaroba fornito. Erano scesi dal treno, avevano camminato un po’ lungo i binari poi lui le aveva indicato una torre diroccata pochi metri più avanti, una vecchia torre di vedetta, ce n’erano tante nella loro campagna. “Andiamo ?”. La porta non esiste più, c’è ormai solo un architrave rotta in più parti, sorretta da pilastrini fatti di lastre di pietra sovrapposti fra cui cresce il muschio, devono farsi strada fra cespugli di ortiche, bellissimi cardi viola spinosi e bocche di leone. La stanza, unico ambiente a pian terreno, è ampia e vi sono ammassate una panca, una vanga, alcune zappe. C’è in un angolo una vecchia scala di ferro, incrostata di terra e di ruggine, ad un chiodo al muro una giacca rattoppata. “Tutto secondo copione! – dice lei ridendo – Guarda com’è bello...” Un raggio di sole – c’è una piccola finestrina a feritoia con una grata di ferro – illumina dall’alto, in un angolo, una vecchia pentola di coccio marrone e vicino tre papaveri che sfolgorano in un ciuffo di verde. Lo guarda felice – come le basta poco a volte – e il suo volto è così vicino, così vicino – lo vuole anche lei quel bacio, sta per superare le sue inibizioni, gli ammonimenti paterni e invece alza una mano, la pone fra i loro volti: “No, non ora”, sussurra pur senza muoversi. Lui la guarda con una espressione strana e si discosta senza una parola, le tende la mano ed escono insieme. Quel bacio non dato è come se fosse rimasto lì, nelle iridescenze del raggio che illumina i papaveri e fra poco cambierà direzione. L’altoparlante annuncia la stazione prima della sua. “Sei quasi arrivata, la prossima è la tua”, dice lui riportandola alla realtà. Le sembra che quel bacio non dato sia stato più importante di tanti venuti dopo, per tutti due. “Mi scriverai?”. “No, – un sorriso mitiga la fermezza della risposta – devo dare un taglio a tutta la mia vita precedente. (Non ci vedremo più su questa terra ). Ti penserò, questo non potrò fare a meno di farlo, e ti ricorderò così: stranamente immutata, con tutte le tue contraddizioni e le tue certezze”. “Pregherò per te tutti i giorni”, replica lei con semplicità e a voce bassa. Il treno sta per entrare in stazione, prima che lui possa alzarsi, lei, che ha già infilato la giacca impermeabile e ha messo al braccio la borsa, gli appoggia le mani sulle spalle, si china su di lui e avvicina le labbra alle sue. Lo bacia a lungo, con determinazione. “Era da tanto che te lo dovevo”, mormora, e se ne va senza voltarsi.
Autore: Marisa Carabellese