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Sedici racconti e una chiusa
15 febbraio 2009

Sommessa e agrodolce l'intonazione dei “Sedici racconti e una chiusa” di Nunzia Scardigno, pubblicati nel 2008 presso l'azienda Grafica L'Immagine (progetto grafico di Michelangelo Manente, copertina di Francesco Ciccolella). L'autrice, molfettese, è già alla sua terza pubblicazione, dopo “La vacanza” (1997), “Di là dal vetro” (1999), “Le Americhe” (2002). Il volume è frutto della riflessione apparentemente pacata, spesso impietosa, di una pasionaria dallo spiccato senso critico, che – come suggerisce la bella copertina – si avvale di microstorie per restituirci le molteplici sfaccettature di una realtà in molti casi non idilliaca, non senza ammiccare, talvolta, ironicamente, ai più classici modelli letterari. In apertura il racconto Il giornalino, una riflessione, non a caso affidata al personaggio di Giulia –quasi un alter ego dell'autrice –, sullo sbocciare nell'infanzia dell'amore per la lettura e per il mondo, poi ribadito nella chiusa ad Euterpe, che si avvale del topos dell'invocazione alla Musa per veicolare una dichiarazione di modestia. «Appena ho potuto, ho portato fiori e bruciato incensi ai tuoi piedi ogni giorno, con umiltà e cuore puro [...] come l'ultima delle sacerdotesse». Le tematiche spaziano dalla sfera personale a quella dell'impegno sociale; a volte possono individuarsi delle precise corrispondenze come tra “L'ultima disfatta” e “Le elezioni comunali”: il filo rosso risiede nella passione politica, nella lotta contro l'atavica diffidenza meridionale nei riguardi di chi aspira a gestire il potere («Gli uomini sono tutti uguali quando si insediano da qualche parte»). Il lettore non può non apprezzare la bonomia con cui la Scardigno disegna l'ateo Eugenio mentre inveisce contro Madonne e santi negli androni delle dimore di beghine sorde e ottuse. La lotta impari contro la grettezza di una mentalità provinciale altrettanto ottusa emerge nel rammarico di un dialogo mancato in “Mia nonna”, ritratto di una “brava donna” incapace di cogliere il disagio profondo alla base delle “estroversioni giovanili” della stravagante nipote. A questo racconto fa da contraltare “Un maestro speciale”, consacrato al ricordo di una didattica finalmente intelligente, democratica, passionale per opera di un maestro/ capitano, “fulgida meteora” in un microcosmo che non sempre avverte la necessità di stimolare lo spirito critico dei discenti. “Un amore” è un simpatico racconto a dittico che analizza in modo straniante le difficoltà di comunicazione, i fraintendimenti, le differenti letture di uno stesso avvenimento che accompagnano, al suo fiorire, il sentimento amoroso e possono concorrere all'erigere una barriera d'incomunicabilità. Quella delle barriere che limitano il naturale fluire delle emozioni è un tema ricorrente nella raccolta... Può trattarsi di radicate inibizioni di natura personale, come quelle che frenano Giulia nel suo desiderio di spiccare un tuffo liberatorio da un trampolino (i momenti migliori del racconto sono quelli in cui la narratrice descrive l'euforia dei chiassosi bagnanti e segue minuziosamente le loro evoluzioni dalla pedana). Le barricate possono magari imputarsi alle differenze etniche e culturali... «Tu vieni ai corsi una volta alla settimana, ci insegni la tua lingua e te ne vai. [...] Nessuno di voi si è mai abbassato a imparare la nostra lingua [...]. Qualche signora dove lavoro mi ha insegnato alcune ricette della vostra cucina, ma non me ne ha chiesta una della mia di cucina»; sono le parole che nel suo dialogo con “una mangiatrice di brioches” un'albanese insediatasi nella nostra terra pronuncia, smascherando la paternalistica sufficienza latente al fondo dei nostri atti di solidarietà verso chi ci appare figlio di una civiltà meno 'raffinata'. A volte è il gap generazionale (“Le vitamine ricostituenti”) a scavare solchi; altre l'egoismo immaturo di chi non si è ancora veduto vivere (“La mia famiglia”). Non sempre è semplice comprendere che i muri si abbattono con un atto d'amore (“Iulian”)...
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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