Dopo la metà del 1920, durante il mandato del regio commissario Gerardo Palmieri, le elezioni amministrative comunali e provinciali erano ormai prossime. A Molfetta, a calcare la mano sul pericolo rivoluzionario provvide il blocco antisocialista dei repubblicani e costituzionali, allarmati in particolare dai tumulti e dalle agitazioni locali, e più in generale dagli eccessi del “biennio rosso” italiano e dagli eventi dell’Unione Sovietica, dove alla cruenta guerra civile tra le Armate bianche antibolsceviche e l’Armata Rossa bolscevica avevano fatto seguito il calo della produzione agricola e industriale e una catastrofe alimentare con milioni di morti per la guerra e per la carestia. Il blocco di repubblicani, moderati e conservatori molfettesi prese il nome di “Fascio dell’Ordine”, in sintonia con gli agrari di Cerignola, che nel dicembre del 1919 avevano creato, contro l’irruenza proletaria, il Fascio di rinnovamento dei proprietari, anticipando i blocchi d’ordine e i fasci di resistenza e difesa sociale che nel 1922 infesteranno la Puglia. Nell’imminenza delle elezioni comunali e provinciali, a Molfetta il Fascio dell’Ordine agitò lo spauracchio della rivoluzione in un volantino di propaganda: «Cittadini, L’eco dolorosa della Russia insanguinata ed affamata ci strinse il cuore e ci fe’ pensare a raccogliere in un sol fascio tutti gli uomini, di ogni parte, contrari all’idea delle conquiste violente, contrari ai movimenti inconsulti ed affrettati». Fra i candidati al Consiglio comunale di Molfetta, nella lista del Fascio spiccavano i nomi dei medici Francesco Calvario e Domenico Roselli (futuro sindaco), degli avvocati Sergio Azzarita, Domenico De Ruvo, Umberto Rana e Alfredo Scarselli, del notaio Berardino Rotondo, del rappresentante di commercio Giuseppe Maggialetti, degli industriali Vincenzo Gallo e Giuseppe Patriarca, dei ragionieri Vincenzo Brudaglio, Vito Cozzoli, Leonardo Del Vescovo e Ferdinando Landolfi. Il serbatoio elettorale era in parte affidato alla solerzia di Cosmo Corrieri, presidente dei fornai, Antonio Magrone, presidente dei marinai, e Mauro Sancilio, presidente degli ortolani. Gli altri candidati erano i commercianti Antonio Balacco, Michele Binetti, Leonardo Cormio, Emanuele Garofalo, Vito Natalicchio e Gaetano Pansini; i proprietari terrieri Corrado Carabellese e Cesare Gadaleta; il costruttore edile Pasquale Cappelluti Altomare, il capitano marittimo Mauro Antico, il fabbricante di cordami Onofrio De Fazio, il proprietario di bilancelle Luigi De Pinto, il fabbro Vincenzo Sallustio, il calafato Crescenzio Piscitelli e il mastro muratore Corrado Marzocca. I candidati al Consiglio provinciale erano il dott. Eduardo Germano, avversario di Salvemini fin dalle elezioni del 1913 e futuro fondatore del Preventorio antitubercolare, l’avv. Sergio De Iudicibus, ex salveminiano, e l’ing. Domenico Valente, quotato professionista. I fautori del cosiddetto “ordine” si erano riuniti in “fascio” anche per contrastare l’attivismo del socialista lombardo Pietro Sartoris, che, reduce dalle roventi lotte bracciantili di Andria, a metà agosto aveva ricostituito a Molfetta la Camera del lavoro, infiammando sul terreno della lotta di classe le leghe contadine e operaie molfettesi con l’aiuto dell’attivista Angelo Gadaleta. In tal modo l’organizzazione camerale socialista veniva a indebolire pesantemente il monopolio salveminiano sull’alternativa alla consorteria affaristica legata al repubblicano Pietro Pansini. Un altro spauracchio per gli uomini del Fascio dell’Ordine fu l’occupazione delle fabbriche, nella prima metà di settembre, nel “triangolo industriale” Milano- Torino-Genova, per la quale Giolitti non ricorse ad azioni di forza, tanto più perché il PSI non seppe e non volle assumersi la responsabilità di quella sfida rivoluzionaria alle leggi vigenti. Ai candidati del Fascio dell’Ordine i combattenti salveminiani contrapposero gli avvocati Nicolò Altamura e Giacinto Panunzio, pure candidato comunale, e Domenico Turtur. Il Corriere delle Puglie dell’8 ottobre informava che i «combattenti proletari» [sic] seguaci di Salvemini presentavano candidati propri, rifiutando comunque il blocco antisocialista con repubblicani e costituzionali. Su Puglia Rossa, organo del Partito Socialista di Terra di Bari, vicinissimo al massimalista Amadeo Bordiga, il 10 ottobre fu pubblicata una corrispondenza da Molfetta. Vi si leggeva che Gaetano Salvemini, pur inserito nel comitato elettorale a fianco di Francesco Picca, Graziano Poli, Leonardo Minervini, presidente dei combattenti, e Vincenzo De Robertis, presidente dei contadini, aveva dichiarato di rinunciare alla candidatura provinciale, mentre auspicava che il Comune di Molfetta venisse conquistato dal solo socialismo operaio e dai suoi rappresentanti emergenti Nicola Mastropasqua, Raffaele Papagna e Corrado Visaggio. Salvemini, in pratica, nella casa di Minervini aveva propinato un’autentica «lezioncina» agli avvocati e politicanti già suoi sostenitori. Ma evidentemente costoro non ne fecero tesoro, perché contestarono vivacemente e trattarono da spia dell’ex onorevole Pietro Pansini l’onesto Raffaele Papagna, che nel comitato elettorale aveva tentato di far prevalere le vedute operaistiche di Salvemini. Al Fascio dell’Ordine e alle «male arti di certi professionisti-affaristi», presenti fra i combattenti salveminiani, la sezione cittadina del Partito Socialista Italiano rispose, mediante un volantino, con un accorato appello ai lavoratori e agli operai: «non votate per i vostri macellai che sotto la visiera di social-guerraiuoli, di salveministi, di combattenti-proletari, ed altre etichette rimbombanti, cercano illudervi ancora per dare la scalata al potere ove trovano mangiar per tutti. Infatti, perché i vostri avversari furono cacciati dal potere? Perché la farina che apparteneva al popolo durante la guerra, andava poco o nulla distribuita e poco o nulla sorvegliata dalle mistificazioni che dagli stabilimenti venivan fatte; e voi non potete ignorare queste porcherie, perché solamente le porcherie vi davano da mangiare nei generi alimentari. […] Salvemini sfugge alle vane ricerche di questi uomini ambiziosi per non addossarsi la responsabilità di una loro cattiva amministrazione. Egli non verrà a Molfetta; dimostra così una sfiducia completa nei dirigenti del suo partito. Avrete voi fiducia in questi? Sarete voi contro il pensiero di Salvemini, cioè che l’amministrazione dev’essere esclusivamente di lavoratori? Né tampoco dovrete votare la lista del Fascio dell’ordine (?). In questo fascio si sono annidati tutti i terroristi del 1913 e tutti gli arricchiti della guerra. Non saranno essi certamente i difensori dei vostri interessi: il ricco penserà sempre a non toccare la tasca del ricco. […] Dite, o uomini del lavoro: […] Siamo i veri combattenti: dobbiamo essere contro coloro che vollero la guerra e che oggi ci negano il pane, costringendoci ad emigrare». A Molfetta i candidati provinciali del PSI erano il sindacalista Angelo Gadaleta, Francesco Mastropasqua, amico di Picca e Salvemini, e Raffaele Pastore. Gadaleta e Mastropasqua erano anche candidati comunali. Alla vigilia delle elezioni, col volantino Ecce Homo! del 16 ottobre 1920 il candidato provinciale combattentista Domenico Turtur fu duramente attaccato in forma anonima da Girolamo Nisio, professore di matematica nel locale ginnasio, primo presidente del Patronato scolastico a Molfetta e assessore con lo stesso Turtur nella giunta salveminiana presieduta dal sindaco Graziano Poli. Con evidente rancore l’ex compagno di strada puntava l’indice contro Turtur, «il fuggiasco del 26 ottobre 1913» (durante le violenze elettorali dei mazzieri repubblicani contro i sostenitori di Salvemini), divenuto «novello Kaiser» come assessore e prosindaco, accusandolo di carrierismo e cumulo di cariche incompatibili. Secondo il prof. Nisio, l’ambizioso Turtur si sarebbe macchiato di favoritismo verso i mulini Pansini & Gallo e Allegretta, di cui era direttore, dallo scorcio del 1914 al 1915, quando dirigeva il servizio dello sfarinamento e razionamento del grano per lo stato di guerra. Inoltre, diventato presidente dell’Ente Autonomo per i consumi del Comune di Molfetta, Turtur avrebbe elargito cospicue senserie a parenti, guardie municipali e compari per l’acquisto di merci e alimenti scadenti o avariati, facendo poi scudo alla sua condotta spregiudicata con le entrate da destinare al costruendo Asilo d’infanzia “Filippetto” voluto da Salvemini. Incalzando, il prof. Nisio continuava: «Siamo certi che l’astuto Turtur, a difesa del suo operato ci esibirà ancora una volta un bilancio da cui risulteranno degli utili a favore dell’erigendo asilo Filippetto. Con ciò non si sarà salvato dalle colpe attribuitegli. Con o senza il Filippetto resteranno a contestare la moralità della faccenda gli atti di sfacciato favoritismo nella distribuzione dei generi ed il manifesto sfruttamento del servizio nell’interesse di persone intime. Interniamoci ora nella Congregazione di Carità. Qui troviamo che il Turtur, l’eterno Turtur, divenuto necessario per la dabbenaggine di Graziano Poli, si sovrappone con intrighi al cadente Berardino Tattoli, ahime! Presidente. Funzionante Presidente [Turtur], in cambio di altri componenti l’amministrazione aventi dritto, comanda, dispone di tutto e di tutti, perseguita per vendetta il Cassiere Nisio Luigi, depone il componente prof. Stefano Salvemini, delegato all’asilo di mendicità, si oppone a qualsiasi aumento di stipendio degli impiegati pagati peggio degli spazzini. […] Inoltriamoci nel Patronato scolastico e lo troviamo Presidente. […] Sperpero di denaro in opere inutili, soppressa ogni beneficenza per indumenti e scarpe, ridotta alla derisione la distribuzione di libri ed oggetti di cancelleria, soppressa ogni riunione di consiglio, non più verbali, non più bilanci. Insomma egli da padrone, da despota si sostituì a tutto ed a tutti, dispose di somme vistose senza autorizzazione del Consiglio. […] Dal Patronato scolastico passiamo all’Asilo infantile. Quale componente di quella Amministrazione, mise sotto i piedi il povero Presidente Giacomo prof. Salvemini. Cospirò, perseguitò, minacciò tutti, forse per interesse di altri che più gli stava a cuore. Si oppose a qualsiasi miglioramento del personale». In quel frangente i popolari a Molfetta non parteciparono alle votazioni. In tal modo, con l’astensione dei cattolici, nelle elezioni provinciali del 17 ottobre 1920 risultarono eletti i costituzionali del Fascio dell’Ordine Eduardo Germano, Sergio De Iudicibus e Domenico Valente con un massimo di 3.986 suffragi. I combattenti salveminiani riuscirono a far confluire solamente 1.570 voti sul nome di Nicolò Altamura, mentre il socialista Angelo Gadaleta ne raccolse 1.533. Nelle elezioni comunali, con la vittoria del Fascio dell’Ordine, ancora più secca fu la sconfitta dei combattenti. Vi avevano contribuito sia il distacco dei socialisti, sia l’atteggiamento dello stesso Salvemini, che rinunziando alla candidatura provinciale, aveva contemporaneamente auspicato la conquista del Comune da parte del socialismo operaio, come aveva prontamente rimarcato il citato volantino della sezione locale del PSI. Sulla mancata venuta a Molfetta e sulla disfatta elettorale dei combattenti, Salvemini replicava il 22 ottobre 1920 dalla vicina Bari all’amico Giacinto Panunzio, incline a ritenere «vergognoso» il defilarsi delle leghe locali. Quella dello storico è un’analisi politica che, nella consapevolezza della frattura tra il salveminismo borghese e il classismo delle leghe molfettesi e nella condanna della corrotta borghesia meridionale, si allargava dalla situazione locale al contesto nazionale: «Caro Giacinto, spero non farete lo sproposito di mettere il mio nome a un circolo. E se avete del buon senso, dovreste far togliere il mio ritratto a olio dalla Lega Contadini: fu grave errore avere lasciato che fosse messo. Non vengo a Molfetta: perché dopo un’ora si saprebbe della mia venuta, e mi si precipiterebbero addosso decine di persone, che impedirebbero ogni conversazione seria e conclusiva. Io sono ben contento di avere capito che non dovevo venire a Molfetta: a Molfetta nessuno dei miei consigli per la formazione delle liste sarebbe stato ascoltato; e in caso di vittoria nessuno dei miei consigli sarebbe stato mai ascoltato dai vincitori, come avvenne l’altra volta [nel 1914]. E io sarei stato il gerente responsabile di situazioni equivoche e assurde. La sconfitta spazzerà il terreno dai cadaveri del passato; e aprirebbe vie a lotte più chiare per l’avvenire. Certe lezioni sono necessarie, come certe sculacciate sono indispensabili per mettere giudizio ai bambini. Lo squagliamento delle Leghe non fu vergognoso, come tu scrivi. Fu logico data la propaganda sotterranea dei socialisti ufficiali e la direzione della lotta assunta dalla parte borghese del nostro partito, la quale viceversa votò tutta per il così detto ordine. Questa esperienza, invece di indurci a biasimare le leghe, deve farci comprendere che non ci è più possibile rimanere a mezz’aria, occorre piegare o lasciare andare la massa a sinistra. Se nel congresso socialista [di Livorno] i comunisti rimarranno in minoranza o ne usciranno, occorre che voi facciate il salto per rafforzare Turati. Se prevalgono i comunisti, e Turati si ritira a vita privata, noi dovremo ritirarci a casa e lasciare che le masse vadano al comunismo. La porca borghesia dei nostri paesi non merita che lavoriamo a salvarla». In effetti nel gennaio del 1921, durante il Congresso nazionale del PSI a Livorno, i comunisti “puri” di Bordiga, Gramsci, Terracini e Tasca si staccheranno dalla corrente riformista di Turati e da quella massimalista dei comunisti “unitari” di Menotti Serrati, fondando il Partito Comunista d’Italia. Su Puglia Rossa del 24 ottobre, il corrispondente da Molfetta per spiegare la sconfitta dei combattenti, oltre allo sgretolamento prodotto dai massimalisti, aveva messo sulla bilancia anche «le ambizioni e le lotte intestine » dei salveminiani, nonché la corruzione elettorale e la «prepotenza esercitata su larga scala dagli accoliti del Fascio sugli elettori». La redazione del periodico bordighiano, invece, non nascondeva la soddisfazione «nel vedere che l’equivoco salveminiano », grazie alla sconfitta «clamorosa» del partito Salvemini a Molfetta e Terlizzi, cominciasse «a scomparire». Quasi a fargli eco, Leonardo Azzarita sul Corriere delle Puglie del 26 ottobre dedicò un apposito editoriale alla «sconfitta dell’on. Salvemini». Rievocando «l’eccesso di campanilismo e d’idolatria», che aveva garantito nel 1919 allo storico un ampio suffragio nella città natia (4.036 voti contro 2.080 ai repubblicani di Pansini e 180 ai socialisti), Molfetta «salveminiana ma non rinunciataria», secondo il giornalista nazionalista sonniniano a oltranza, aveva abbandonato il «segnacolo anacronistico» rappresentato da Salvemini e aveva puntato compatta sul liberalismo. Rincarando la dose, il fascista barese Araldo Di Crollalanza in una lettera del 6 novembre 1920 a Cesare Rossi, vicesegretario nazionale dei Fasci di combattimento, scriveva: «Fascisti si sono recati a Bitonto con la bandiera di Fiume, ed hanno battuto completamente Salvemini nelle elezioni. […] Il salveminismo, per opera anche dei fascisti, è tramontato per sempre in Puglia». In realtà la vittoria della coalizione costituzionale nelle elezioni provinciali di Bitonto del 31 ottobre 1920 era stata risicata: 2.773 voti contro i 2.426 raccolti da Carlo Maranelli e Giovanni Modugno, socialisti non ufficiali del «partito del lavoro» e amici assai stimati da Salvemini, con i quali e per i quali il deputato aveva tenuto un comizio in Bitonto il 24 ottobre precedente. Per altro i socialisti ufficiali avevano racimolato solo 125 voti e la competizione elettorale era stata funestata alla vigilia dall’omicidio di Cosimo Lovero, un contadino diciottenne salveminiano, ammazzato a revolverate dai fautori del Fascio dell’Ordine. Con la forte sterzata a destra di gran parte della società italiana, i Fasci Italiani di Combattimento l’8 novembre 1921 si muteranno in Partito Nazionale Fascista. © Riproduzione riservata