L’estate italiana del 1922 venne funestata da un feroce incremento delle violenze fasciste. Agli inizi di luglio manipoli di “camicie nere” occuparono Rimini, costringendo la giun- ta socialista guidata dal medico Arturo Clari a dimettersi il 6 luglio. Il 3 luglio centina- ia di squadristi pugliesi, molti dei quali a ca- vallo, al comando di Giuseppe Caradonna e Achille Starace, incendiarono la Casa del popolo di Andria, devastarono le sedi di al- tre organizzazioni proletarie, invasero le case degli antifascisti andriesi più in vista e occu- parono il municipio, esigendo l’immedia- to scioglimento del Consiglio comunale di Andria. Poi, terrorizzando la popolazione rione per rione, assunsero il controllo della città. La forza pubblica non solo non intervenne per difendere gli antifascisti dalle violenze squadristiche, ma in sovrappiù ar- restò Nicola Modugno, dirigente della Camera del Lavoro di Andria, e una ventina di suoi compagni. Il prefetto di Bari Carlo Olivieri non prese nessuna iniziativa a tutela dell’ordine pubblico e dell’incolumità dei cittadini, ma per contro segnalò telegraficamente al ministero degli Interni, retto dal presidente del Consiglio Luigi Facta, «atteggiamento piena unione degli agrari ai fascisti e larga assistenza loro fornita» e la collaborazione di «commercianti e industriali di Andria, tutti pienamente avversi a socialisti per soprusi patiti e decisi rovesciare amministrazione». Il 5 luglio il ras Roberto Farinacci occupò il municipio di Cremona, mentre i suoi scherani andavano nelle case dei consiglieri comunali, imponendo loro di firma- re le dimissioni. L’on. Giuseppe Garibotti si rivolse con urgenza al Governo, ma Fac- ta rinviò ogni risposta all’ordinario calenda- rio parlamentare. Il 9 luglio i fascisti tentarono l’assalto alla Camera del Lavoro di Sestri Ponente e poi invasero il municipio, ricacciati dal qua- le si diedero alla devastazione di una socie- tà di mutuo soccorso e del pastificio di una cooperativa. Tra il 10 e l’11 luglio squadri- sti pavesi e monferrini scatenarono nel Novarese pestaggi, sparatorie e distruzioni di circoli operai, che proseguirono nei giorni seguenti. Il 12 luglio a Viterbo, al comando di Ulisse Igliori e Gino Calza-Bini, vi fu una concentrazione fascista di 2.500 squadristi laziali per ottenere le dimissioni dell’amministrazione comunale. Il 13 luglio affluirono a Cremona le squadre d’azione di tutta la provincia agli ordini di Farinacci, in segno di protesta contro la «reazione governativa», che non aveva approvato la cacciata degli amministratori socialisti dal comune ad opera dei fascisti. Venne distrutta la Cooperativa Terrazzieri di Porta Mosa, devastata la Tipografia Proletaria, dove si stampava l’Ecodel Popolo, e saccheggiata selvaggiamente la Camera del Lavoro. Vennero devastate anche le case dei deputati Giuseppe Garibotti, socialista, e Guido Miglioli, popolare. I fascisti attribuivano all’influenza di Miglioli, definito il «bolscevico nero», i provvedimenti del Governo contro l’azio- ne squadristica. Il 15 luglio Benito Mussolini, per dare valore politico a quelle spedizioni, scrisse su Il Popolo d’Italia che il fascismo italiano era impegnato «in alcune decisive battaglie di epurazione locale». Il 17 luglio vi furo- no spedizioni punitive fasciste a Tolentino nel Maceratese e a Lumellongo, frazione di Novara. Qui per gli scontri si contarono ben sei morti e undici feriti tra i contadini. Il 18 luglio fu occupato anche il municipio di Novara. Il 19 luglio i deputati popolari, in particolare per i fatti di Cremona, decisero di staccarsi dalla maggioranza e di provocare una discussione sulla politica interna. Facta invocò la concordia civile e cercò di difendersi ribadendo l’imparzialità del Governo e attribuendo in parte la colpa dell’accaduto agli errori e alla debolezza di funzionari locali. Mussolini, nel suo ultimo discorso da deputato, dichiarò che i fascisti avevano deciso di votare contro il Governo e che, pur disponibili a rientrare nella legalità, erano pronti a replicare con l’insurrezione a un eventuale ministero di reazione antifascista. Sfiduciato dal Parlamento, Facta il giorno stesso annunciò le dimissioni. I tentativi di Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi e Filippo Meda, incaricati dal re di costituire un nuovo gabinetto, fallirono. Del resto anche Giovanni Giolitti, che allora si trovava a Vichy, contribuì al fallimento della col- laborazione fra i popolari e i socialisti af- fermando, in una lettera del 20 luglio, che fu pubblicata sul quotidiano romano La Tribuna del 26 luglio dal direttore Olindo Malagodi, di ritenere che nulla «di buono» sarebbe potuto venire all’Italia «da un con- nubio don Sturzo-Treves-Turati». Intanto le violenze fasciste non cessavano. Infatti il 24 luglio vi fu una selvaggia spedi- zione punitiva a Magenta (Milano) durante la quale fu incendiata la sede dell’Alleanza cooperativa della città. Il 26 luglio seguì un raid a Ravenna, guidato da Italo Balbo contro le organizzazioni repubblicane e quanti scioperavano per manifestare contro le ultime violenze delle “camicie nere”, causando la morte di nove antifascisti nella notte tra il 27 e il 28 luglio nell’assalto al palazzo della Federazione delle Cooperative. Il 29 luglio il comitato segreto dell’Alleanza del Lavoro, un organo federale che raggruppava i sindacati e i partiti di sinistra, decise di proclamare lo sciopero generale per la mezzanotte tra il 31 luglio e il 1° agosto allo scopo di spingere verso una soluzione della crisi ministeriale a favore del centro-sinistra sotto l’influenza dei riformisti della Confederazione Generale del Lavoro e con l’approvazione di Filippo Turati, che definì «legalitario» lo sciopero. Va detto che Turati proprio il 29 luglio si era deciso – troppo tardivamente – a varcare la soglia del Quirinale per essere ricevuto per la prima volta dal re ad esprimere il proprio pa- rere. Purtroppo questo incontro, che destò grande scalpore nel suo partito, non ebbe effetti pratici e la sera del 30 luglio il re offrì il reincarico a Facta, che il giorno seguen- te comunicò di accettare e ricostituì celer- mente il suo ministero, spingendo popolari e democratici ad accantonare ogni ipotesi di collaborazione con i socialisti. Come se non bastasse, la notizia della proclamazione del- lo sciopero, che doveva restare segreta fino alla sera del 31 luglio, venne resa pubblica la mattina di domenica 30 luglio per un errore – pare involontario – del quotidiano Il Lavoro di Genova. Così la direzione del Partito Nazionale Fascista ebbe il tempo di reagire, avvertendo con un proclama che, se il Governo entro 48 ore non avesse stroncato lo sciopero, i fascisti avrebbero provveduto a farlo direttamente. La partecipazione dei lavoratori allo sciopero, da cui si dissociò la Confederazione bianca, non fu imponente, ma fu comunque notevole a Torino, Milano, Genova, Livorno, Brescia, Ancona, Parma, Roma e Bari. Nelle tre ultime città i fascisti furono impegnati in duri scontri con gli Arditi del Popolo e con masse considerevoli di antifascisti. A Bari la mattina del 1° agosto affluirono squadre fasciste da numerosi comuni della Puglia e perfino da Bologna. Radunatisi nella piazza della prefettura, gli squadristi di Caradonna invasero i vicoli della città vecchia per assaltare la sede della Camera del Lavoro, ma furono bloccati con barricate improvvisate dagli Arditi del Popolo e da molti popolani guidati dai sindacalisti Giuseppe Di Vittorio, Filippo D’Agostino e sua moglie Rita Maierotti, dal repubblicano Piero Delfino Pesce e dagli anarchici Vincenzo Pinto e Camillo Salonna. Persero la vita il 2 agosto un facchino e il 3 agosto un tranviere e un operaio, ma in quello stesso giorno i fascisti dovettero battere in ritirata. Caradonna, infuriato per l’inaspettata resistenza, chiese al prefetto Olivieri l’intervento di reggimenti dell’esercito con cannoni e autoblinde, minacciando diversamente di far accorrere a Bari altri duemila squadristi. Il prefetto non si mostrò contrario all’intervento di contingenti militari, ma solo nella notte fra il 7 e l’8 agosto, dopo la ritirata fascista e la decisione del comitato barese dell’Alleanza del Lavoro di terminare lo sciopero, fece penetrare in Bari vecchia battaglioni di soldati dotati di armi automatiche e autoblinde. Nel mare adiacente si era presentata minacciosa la vecchia torpediniera Orione. Dopo l’assalto delle forze regie, tra i resistenti si ebbero numerosi feriti e due morti. Il prefetto allora fece chiudere la Camera del Lavoro e arrestare molti antifascisti, venendo premiato il 27 agosto col trasferimento a Torino. Il 1° e il 2 agosto si ebbero scioperi anche a Taranto, Foggia, San Severo, Andria, Gravina, Molfetta e pochi altri comuni. I fascisti intervennero drasticamente. Il 3 agosto a San Severo e Gravina devastarono le rispettive Camere del Lavoro. A Molfetta, invece, il tentativo di spedizione punitiva da parte di squadristi della Capitanata fallì grazie all’atteggiamento compatto e deciso dei socialisti molfettesi raccolti nella sezione del partito. Il 1° agosto a Livorno, Firenze e Siena squadracce fasciste devastarono tipografie e circoli socialisti. Considerata la violentissima reazione fascista in tutta Italia, l’Alleanza del Lavoro, che inizialmente non aveva dato limiti di tempo allo sciopero, ne stabilì la fine per il mezzogiorno del 3 agosto. Allora l’offensiva squadrista si scatenò ancora più brutale. Ancona fu assalita da manipoli provenienti dall’Emilia e dall’Umbria, che sconfissero gli anarchici, i repubblicani e i comunisti solo dopo aspri combattimenti durati tre giorni. A Livorno, dopo scontri con morti e feriti, l’amministrazione socialista fu costretta a dimettersi. A Genova, dopo due giorni di guerriglia con morti e feriti, da squadracce del Carrarese e dell’Alessandrino fu devastata la sede del giornale socialista Il Lavoro e il 5 agosto fu occupato Palazzo San Gior- gio, sede comunale. A Milano il 3 agosto squa- dre fasciste lombarde, col solito strascico di morti e feriti, occu- parono Palazzo Marino, sede del municipio, imponendo all’amministrazione socialista di dimettersi e incendiando per la seconda volta la sede del quoti- diano socialista Avanti! Gabrie- le d’Annunzio, di passaggio a Milano, la sera di quello stes- so giorno fu invitato ad arringa- re la folla dal balcone di Palazzo Marino. Il poeta, in realtà, parlò del sereno orgoglio di aver detto «la più grande, la più bella parola di bontà», mentre ancora bruciavano le ferite, mentre infuriava la passione di parte ed «i bivacchi» ardevano. Ma Mus- solini sul Popolo d’Italia del 5 agosto interpretò artatamente il discorso dannunziano come esplicito atto di adesione al fascismo e di rinnegamento dei colloqui avuti con i sindacalisti riformisti Gino Baldesi e Ludovico D’Aragona rispettivamente in aprile e a fine maggio. Il 4 agosto anche le giunte comunali di Firenze, Savona, Alessandria, Gallarate e Voghera furono costrette a dimetter- si. Il 5 agosto una squadraccia assassinò nel centro di Fano il socialista Giuseppe Morelli. Soltanto Parma, come Bari, risultò vittoriosa sui fascisti. Dopo cinque giorni di aspra lotta dal 2 al 6 agosto, grazie all’intervento della popolazione operaia dell’Oltretorrente a sostegno degli Arditi del Popolo, guidati dal deputato massimalista Guido Picelli, la città riuscì ad aver ragione delle “camicie nere” di Balbo, che accettarono la mediazione del vescovo Guido Maria Conforti e rimisero i poteri nelle mani dell’autorità militare, come a Milano e a Genova. Nei mesi di luglio e agosto del 1922, Gaetano Salvemini si trovava in una condizione abbastanza defilata rispetto al marasma politico italiano. Dal 15 luglio al 2 agosto soggiornò in provincia di Pisa a Casciana Bagni (l’attuale Casciana Terme) per curare i dolori osteoarticolari a una gamba con un ciclo di bagni termali, come nell’anno precedente. Dal 4 agosto si trasferì in provincia di Varese a Taìno, una splendida cittadina sul Lago Maggiore, per consultare documenti sulla politica estera italiana messigli generosamente a disposizione dal conte Carlo Corti, parente del senatore Luigi Corti, che era stato ministro degli Esteri italiano dal marzo all’ottobre del 1878, partecipando come primo plenipotenziario al Congresso di Berlino. Il 5 agosto Salvemini scrisse da Taìno alla moglie Fernande Dauriac, che si trovava nel paesino piemontese di Angrogna, elogiando l’amenità e la frescura del paesaggio tainese e informandola sul proprio lavoro storico-archivistico e sull’imminente partenza per la Francia e per l’Inghilterra, dove voleva imparare a parlare l’inglese: «Cara la mia vecchia, questo paese è di una straordinaria bellezza. […] Un paesaggio stupendo da paradiso terrestre. E clima fresco e leggero. Ospiti assai gentili. E documenti interessanti per il mio studio. Avrò finito – credo – giovedì 10 agosto. E di qui verrò a Bricherasio, dove resto fino al 15. [Edoardo] Giretti mi ha fatto trovare qui una cartolina, in cui invita te e me. Ci troveremo quindi a Bricherasio per tre giorni. Il 15 parto per la Francia. Puoi avvisare la tua mamma che il 16 o il 17 sarò a Parigi. Il 20 parto per l’Inghilterra». Salvemini, tuttavia, non nascondeva alla seconda moglie il suo persistente disagio e disgusto per la confusa e luttuosa situazione politica italiana: «non mi sento en forme specialmente dopo i fatti di questi giorni: l’umanità mi fa schifo, come formata metà di stupidi e metà di delinquenti; e non ho voglia di occuparmene. Se ne occupi chi ne ha meno disprezzo e meno disgusto di quanto non ne senta io in questo momento». Gli eventi, però, precipitavano. Nella riunione del Comitato centrale del Partito Nazionale Fascista, tenuta a Milano dal 13 al 14 agosto, Mussolini, dopo aver sostenuto che per il fascismo era indispensabile «divenire Stato», ripropose il dilemma dei due mezzi, «il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extra-legale della insurrezione». Siccome l’organizzazione dell’esercito fascista appariva insufficiente, si decise di adottare un piano più centralizzato e la creazione di un direttorio militare. A far parte del direttorio furono designati Cesare Maria De Vecchi, Italo Balbo e il generale Emilio De Bono. Il nuovo piano fu approntato da Balbo e De Vecchi per il 15 settembre. A peggiorare le cose intervenne l’approfondirsi della spaccatura fra massimalisti e riformisti collaborazionisti, sancita con una nuova scissione dal XIX Congresso del PSI, che si tenne a Roma dal 1° al 4 ottobre. La mozione massimalista ebbe 32.106 voti, quella collaborazionista 29.119, gli astenuti e i non votanti furono 11.040. Dopo la votazione, Turati annunciò la separazione dei riformisti, che costituirono il Partito Socialista Unitario Italiano (PSUI). Ne fu nominato segretario Giacomo Matteotti, mentre Claudio Treves divenne direttore del giornale partitico La Giustizia. Il 24 ottobre, durante l’adunata delle squadre fasciste a Napoli, Mussolini, rispondendo al grido «A Roma, a Roma!», in una breve allocuzione in piazza San Ferdinando annuncerà: «Vi dico con tutta la solennità che il momento impone, che o ci daranno il governo o lo prenderemo, calando su Roma». La “marcia su Roma” sorprenderà Salvemini a Parigi. © Riproduzione riservata