Rosa Racanati Gadaleta raccolta di pensieri e sfoghi
Si connota per il considerevole lavorio formale e per il profondo empito morale e civile la bella Raccolta di pensieri e sfoghi di Rosa Racanati Gadaleta, edita nel 2009, con la funzione di off rire al lettore la “panoramica di un percorso di vita”. L’autrice ha esercitato a lungo la splendida e diffi cile professione di docente, concludendo la propria carriera con la sostituzione alla presidenza del prof. Nicola Sciancalepore. Il volume racchiude liriche di un certo pregio e denota un’interessante attenzione alle scelte lessicali e alla musicalità del verso. Nei primissimi componimenti, la contemplazione di un paesaggio in cui si inserisce armonicamente la fi gura umana vibra di grazia quasi popolaresca. Sono pennellati scenari di arcadica quiete, in cui la rievocazione del canto “di bifolchi e ortolani” coesiste con la morbida sensualità di un allattamento su terre soleggiate. Suggestioni forse sabiane si aff acciano nell’immagine di un agnello, nel periodo pasquale dallo sguardo del pastore già predestinato al sacrifi cio. Dall’immolazione dell’agnello si passa a quella di una rondine, tesa a propiziare il canto nell’ugola di una bimba fragile e pietosa. Ben delineata, con pochi, convincenti tratti la fi gura della vecchia “Chiarina”, coi suoi modi sbrigativi di popolana. Nei versi della Racanati Gadaleta, l’amicizia è un seme da lasciar radicare e ogni nuova vita, nel suo sbocciare, timido o prorompente che sia, va salutata con classico nitore (“A te sempre sia / la fronte senza nubi / il cuore senza aff anni”). Incrollabile appare nell’autrice la convinzione dell’illusorietà delle speranze che animano la gioventù di ogni uomo (“Ora ch’è giunta di messe / stagione, spighe non trovo / e tralci non vedo”), ma tale disincantata certezza non impedisce quegli slanci di cui l’esistenza umana deve alimentarsi (“Mi piacciono i fi ori / che come gli uomini, / non temono il vento / e son generosi”). Felicissima oggettivazione della tendenza dell’individuo ad abbandonarsi, forse incautamente, all’ingannevole fl usso vitale è l’icona della “vela rossa”, con il suo distendersi fi duciosa alla promessa di “orizzonti lontani”. Tra gli esiti più interessanti della raccolta annoveriamo le liriche ispirate a momenti di vita scolastica. In “La II L”, un’aula diviene specola da cui scrutare un mondo/giardino, in cui convivono le insegne della decrepitudine (si pensi al “puttino di pietra / che il tempo ha butterato”) e accenni di fi oritura. Delicata la chiusa: “La mia aula [...] / mi serba adesso il dono / della fragranza fresca / di una sposa d’aprile”. Così, anche nella ciclicità del tempo scolastico, possono accendersi inattese sospensioni di una quotidianità fatta di verifi che da somministrare, e lo sguardo può perdersi a inseguire l’incanto di un “cespo fi orito”. Paesaggi epigrammatici si alternano a rifl essioni sulla poesia, come quella a p. 32. In essa Rosa Racanati muove dalle tecniche proprie del plazer e dall’accostamento di elementi di raffi nata delicatezza, per concludere, in maniera volutamente spoetizzante, con la negazione della possibilità di una reale effi cacia della poesia, che piove, inascoltata, su una moltitudine di gente indiff erente. Il rigore etico spinge in più di un caso l’autrice all’uso di termini duri, di suoni aspri, all’abbondare di “s” preconsonantiche: ciò accade, ad esempio, in “Ipocrisia”, dove rivive, catapultata in un contesto rabbioso, un’immagine cara a Gozzano, quella dell’”acciottolio” delle stoviglie. Talora, pare invece che l’io lirico sia alla ricerca di un luogo dell’anima, che è in fondo un po’ la “plaga” dell’eterno ritorno, in cui tutto è lenito, anche le memorie amare. Il suo equivalente sul piano temporale potrebbe considerarsi l’“ora assorta”, “che al cuore dà pace”: dai tronchi sono emanati “effl uvi / d’anguria matura” (immagine fresca e pregevole) e ogni umano cuore può prepararsi a nuove, esaltanti partenze. Struggenti, ma di composta bellezza, gli epitaffi a fi ne raccolta. In “A Guido”, l’ultimo viaggio della persona amata comincia, furtivo, nella silenziosa calura di un pomeriggio di sole. L’intima malinconia della raccolta trova suggello nell’immagine di un uomo che cercava “l’estate dovunque”, ma il ciclico, catulliano, ritorno del sole l’ha sorpreso altrove, “prigioniero ormai d’ineluttabile / dura, umana avventura”. Una consolazione è però possibile e a porgerla è la “strafottente” smania di fi orire di un comune papavero, sbocciato tra i rigori dell’inverno, per off rire agli sguardi increduli “uno scampolo di primavera, / una caparra al sole che verrà”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo