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Rifondazione comunista: alla Network Contacts siamo con le lavoratrici e i lavoratori contro l’arroganza padronale
03 agosto 2019

 MOLFETTA – Sulla vertenza della Network Contacts interviene anche Rifondazione Comunista con un comunicato: «Apprendiamo da fonti di stampa e da tanti lavoratori nostri concittadini che è in corso una crisi aziendale alla Network Contacts di Molfetta. Sembra si tratti di una crisi “al buio” perché nonostante la trattativa e gli articoli di stampa non è ancora chiaro il motivo di questa “crisi”
L’azienda tramite il suo direttore generale Dott. Saitti prima rassicura la città che non ci saranno licenziamenti poi con un comunicato di taglio classicamente antisindacale preannuncia i tagli al personale.
Ovviamente la colpa è dei sindacati che abbandonano i tavoli della trattative.
I termini della questione non vengono spiegati, se c’è un calo di profitti o la perdita di una commessa, non è dato sapere, l’unica cosa certa è che se non si accettano le condizioni dell’azienda partono le lettere di licenziamento.
Questo è il più classico dei ricatti padronali per dividere lavoratori e sindacati, che rispediamo al mittente
Chiediamo al sindaco, alle istituzioni regionali e nazionali, di intervenire perché quando più di trecento lavoratori vanno a casa, è la collettività che paga».

 

 

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era Maggio 2017 quando GRAZIE ALLA CGIL (gli stessi che sono andati via dal confronto a Molfetta) i 1.666 licenziamenti del call center di Roma di Almaviva, scattati alla vigilia dello scorso Natale, non solo sono legittimi ma sono stati avviati anche grazie al comportamento della Cgil. Si, avete letto bene, i licenziamenti sono stati indirettamente determinati dalle tattiche dele struttuee sindacali, perché: «...hanno chiaramente dimostrato di non voler dare attuazione agli accordi firmati» e «non hanno chiesto alcuna interruzione delle trattative per consultare i lavoratori» con un referendum. Sono frasi pesanti quelle della clamorosa sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma (firmata dal giudice Renata Quartulli), che ha respinto il ricorso contro i licenziamenti presentato dalla Cgil-Slc, l’organizzazione dei lavoratori della comunicazione del sindacato guidato da Susanna Camusso. Nel collocare il sindacato sul banco degli imputati, il Tribunale l’ha condannato a pagare 3.000 euro ma soprattutto a subire una impietosa analisi del suo modo di difendere il lavoro in una vertenza finita con la più imponente distruzione di posti di lavoro (a tempo indeterminato) degli ultimi 25 anni. Una sentenza choc. Perché rovescia molti luoghi comuni attribuiti alle parti sociali. E perché mostra - come vedremo - quanto siano bislacchi e persino pericolosi alcuni meccanismi del confronto sindacale. Ma che cosa è successo all’Almaviva? In sette pagine, parzialmente riportate dal Sole24Ore, la sentenza ricostruisce la vertenza ricordando che i call center di Roma e Napoli erano da anni in agonia. Fino a quando nel maggio del 2016 l’azienda decide di mettere un punto: o si riduce il costo del lavoro e si aumenta la produttività oppure si va ai licenziamenti di massa. Così il 30 maggio 2016 la Cgil-Slc firma un accordo che ruota intorno al punto 5. Spiega il Tribunale: «Azienda e sindacati si erano impegnati a raggiungere entro sei mesi un accordo sulla gestione della qualità, della produttività e dell’analisi del contatto». In pratica si trattava di far partire controlli individuali sui lavoratori per aumentare la produttività. Il sindacato, però, cambia opinione. Il giudice certifica che «il 27 giugno e il 9 settembre le organizzazioni sindacali non si sono nemmeno presentate agli incontri». Solo il 22 settembre si mette in piedi un primo confronto che va a vuoto. «Il sindacato - fotografa nitidamente il giudice - nonostante l’azienda abbia prospettato di riaprire le procedure di licenziamento in caso di mancato accordo ha ritenuto di non trattare sul controllo individuale così come si era impegnato a fare a maggio». Dunque - secondo la giustizia italiana - la scelta di trattare e non-trattare del sindacato è il primo virus che ha fatto morire 1.666 posti di lavoro a Roma e bruciato 40/50 milioni di stipendi. Non finisce qui. La sentenza affronta un altro nodo di fondo: chi rappresentano i sindacati? E lo fanno in modo efficace? In Almaviva Roma gli iscritti ai sindacati erano pochi mentre i delegati erano eletti da circa il 70% dei lavoratori. Ma nell’ultima pagina della sentenza si raccontano gli incredibili avvenimenti della notte del 22 dicembre, l’ultima utile per evitare i licenziamenti, ed emergono molti dubbi sul comportamento dei delegati. Durante il drammatico confronto ospitato al ministero dello Sviluppo, i delegati aziendali (RSU) della Cgil-Slc si divisero facendo cadere ogni ostacolo ai licenziamenti a Roma «senza chiedere - scrive il giudice - alcuna interruzione delle trattative per attendere la consultazione dei lavoratori». Il referendum, per la cronaca, si svolse fuori tempo massimo il 27 dicembre con la vittoria dei “Sì” al confronto. Il giudice sottolinea l’abnorme ruolo delle RSU nel via libera ai licenziamenti (provato da un comunicato Slc che parla di «manifesta lacerazione che ha attraversato la delegazione delle RSU»). Insomma, per il Tribunale a far saltare il banco non fu l’azienda ma lo scontro al calor bianco nella delegazione Cgil: realisti contro irremovibili. Scese in campo persino la Camusso che, al ministero, si disse favorevole ad una intesa. Ma mentre i delegati Cgil-Slc di Napoli accettarono (e ora 818 dipendenti partenopei di Almaviva lavorano) i rappresentanti dello stesso sindacato di Roma scelsero il “no”. Possibile che dei soldati, le RSU, si ribellino al loro generale e abbiano anche l’ultima parola? Nel sindacato è possibile, con risultati discutibili visto che - il giudice lo sottolinea con sbigottimento - il 22 dicembre l’azienda licenziò: «per l’esito di un percorso svoltosi nel rispetto di condizioni e termini fissati dalla legge». Traduzione: ad Almaviva la Cgil-Slc e le RSU recapitarono ben due regali di Natale perché l’azienda non solo si liberò della forza lavoro in esubero ma poté farlo in piena legittimità. A questo punto fra gli osservatori potrebbe sorgere un dubbio: si è davvero fatto di tutto per difendere interessi e dignità dei 1.666 lavoratori? Per ministeri competenti, partiti, sindacati, giuslavoristi nasce poi un’altra domanda: che si può fare per evitare che i lavoratori paghino se chi li rappresenta finisce per fare autogoal?
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