Ricordo dello scrittore molfettese Enrico Panunzio
Scomparso nella sua casa romana
A zio Enrico. Roma, Trastevere. Nella notte di venerdì 20 febbraio ci ha lasciato lo scrittore molfettese Enrico Panunzio. Nato a Molfetta nel 1923, era stato direttore della biblioteca dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi. Autore sia di narrativa che di poesia, tra i suoi scritti spiccano titoli come: “I signori scaduti” con cui ottiene una segnalazione al prestigioso Premio Grazia Deledda nel 1954 e vince il Premio Salento nel 1968, “Il balcone di casa Paù” e non ultimo “Malfarà”. Ad Enrico Panunzio si deve anche una traduzione italiana in versi di Les Fleurs du Mal di Baudelaire. I miei ricordi di zio Enrico nascono nella nostra villetta di famiglia collocata a poca distanza dalla sua torretta, ambedue nella zona Madonna della rosa. Il suo arrivo festoso veniva annunziato dal vociare dei miei cari cugini Antoine e Stephanie che decretavano l’inizio della spensierata stagione estiva della mia infanzia e dalle visite reciproche fra le nostre famiglie, legate più all’amicizia che ai legami di parentela. Ricordo nitidamente la figura anziana e dignitosa di Giacinto Panunzio, suo padre, intellettuale e primo segretario socialista di Molfetta, grande amico di Gaetano Salvemini, seduto su una vecchia sdraio o a passeggio nei vialetti con l’immancabile bastone. Ricordo le sue gite nell’entroterra pugliese, a Castel del Monte o sulla Murgia, per assorbire quelle atmosfere, le cui emozioni avrebbero scaldato la sua fantasia ed emotività di artista anche nei freddi inverni parigini. Anche quando tornava a Parigi, Enrico per non dimenticare il suo amatissimo “Sud”, nella libreria della sua mai dimenticata moglie, l’amata Pierrette, rappresentava le opere dei pupi siciliani. Enrico sapeva animare i pupi come nessun altro, e incantava il pubblico con le gesta di Orlando, Angelica e degli altri Paladini di Francia. Ma le rappresentazioni degli antichi pupi siciliani prendevano vita anche a Molfetta, al Pulo, nell’antico convento da lui restaurato, aiutato nella messa in scena dai suoi amatissimi figlioletti Antoine e Stephanie, dal suo Marcò, per me, per i miei fratelli e per tanti altri bambini, parenti e amici che lui incantava con le perfette movenze di questi enormi e pesanti pupi in legno e latta, prestando loro l’anima e le voci per narrarci la chanson de geste, gli amori, le amicizie, i tradimenti, le lotte. Immagini e colori che sapevano di profumi orientali e lontani per le nostre allora giovani menti. Quel convento serberà sempre le immagini spensierate della nostra matura fanciullezza, delle prime albe vissute fuori casa guardando il sol invictus innalzarsi sul panorama di ulivi a perdita d’occhio. Alba rossastra che squarciava le calde notti del ferragosto molfettese. Di quelle notti insonni serberò il ricordo dei nostri interminabili dialoghi notturni sugli accadimenti della rivoluzione francese o sulle alchimie medioevali, sui segreti della narrativa ebraica e sui suoi viaggi. Circondati da mobili antichi, pupi siciliani abbandonati nel loro teatro, dai simulacri in campane di vetro della nostra Madonna dei Martiri, dai quadri della passione del Cristo, dallo stridio delle rondini che annunziano l’alba. Nella sua casa romana di Trastevere si potevano incontrare il suo amico Moravia, Calvino e tanti altri scrittori, artisti, musicisti e intellettuali, ma soprattutto la sua casa era luogo di ritrovo della intellighenzia molfettese che risiedeva a Roma o che vi si trovava di passaggio. La cara Elvezia Panunzio, scrittrice e traduttrice per la Sellerio, il pittore Franco Poli, la poetessa Stella Poli, politici di primo piano come Beniamino Finocchiaro e tanti altri volti di famiglia che si affollano nei miei ricordi. Più che per la sua immensa cultura e per l’uso e la padronanza di un linguaggio colto, elegante ed erudito che si accompagnava al suo aspetto volutamente trasandato, Enrico colpiva chi gli voleva bene per la sua grande anima: il suo sorriso, sempre presente, sapeva leggere nel profondo di chi lo circondava e vedere in trasparenza quali fossero i nodi da sciogliere. Amava la sua Puglia, i suoi miti, i suoi simboli, le sue leggende, la storia delle religioni, le radici dei luoghi e delle famiglie. Ricordo le tante passeggiate con lui sul porto, al tramonto, durante la stesura del suo libro “Il balcone di casa Paù”. L’aggiungersi quotidiano dei nuovi capitoli ed il delinearsi dei personaggi e della trama, il profumo della bruma di mare che lui ricercava per ispirarsi, la vicenda che si ispirava alla storia della città per virare bruscamente verso la fantasia. Il suo ritornare a Molfetta, come le rondini in primavera, per vivere le liturgie esteriori ed interiori della Settimana Santa molfettese. Le processioni, le uscite e le ritirate viste dai suoi privilegiati balconi, le marce funebri ascoltate per strada al seguito della banda comunale, le lamentazioni, il vexilla, gli sguardi, l’assalto dei ricordi e delle “assenze” che in quel tempo senza tempo tornavano ad essere “presenze”, perché quel tempo di cerimonie ancestrali ci ricorda che la morte é morta. Passando sotto la sua casa nel cuore del borgo antico molfettese, scorgo la stele in marmo con le parole che volle dedicare al suo amato padre: “Esule senza spesa con le rondini, da questo balcone, Giacinto Panunzio, un poeta, restituiva bellezza e clemenza alla vita”. Ora mi sembra di sentirli, nuovamente assieme e so che li incontrerò sempre nei miei ricordi, anche loro, ogni volta che la Pasqua molfettese spanderà il suo profumo di giacinti e fresie lungo il borgo antico a preannunziare la buona novella e la certa primavera.
Autore: Girolamo A. G. Panunzio