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Renato Brucoli: Luce & Vita, porte e finestre spalancate sul mondo IL RICORDO DE L PRIMO DIRETTORE LAICO
15 giugno 2014

Abbiamo chiesto all’amico Renato Brucoli, primo direttore laico di “Luce & Vita” durante l’episcopato di Don Tonino di raccontarci questa sua esperienza, in occasione dei 90 anni del giornale diocesano Me l’ha chiesto a bruciapelo, sorprendendomi. Ho accettato all’istante, suscitando la sua gratitudine. È così cominciata l’avventura più difficile e bella della mia esistenza, quella di direttore del settimanale Luce & Vita insieme, chiamato da don Tonino al servizio dell’informazione religiosa in diocesi. Esperienza sofferta, perché espressa in un contesto impegnativo e drammatico; luminosa, perché in compagnia di un santo e delle persone nel cui volto amava specchiarsi. Di don Tonino Bello, testimone di Cristo e profetico annunciatore del Vangelo, mi affascinava la capacità di attraversare la navata del mondo: la sua immersione nella cronaca per farne storia di salvezza. Mi seduceva l’allenamento a farsi prossimo e a donarsi nella ferialità. Mi avvinceva l’inedita figurazione dell’umano assurto a cattedrale di Dio. L’inesausto vagabondaggio nella notte della marginalità, pronto a offrire rigeneranti barlumi di speranza. Il trepidante tirocinio all’alba, spiata nello sguardo di ogni sguardo. La sua missione era dominata dal desiderio di dare luce e vita all’umanità, facendo anche dell’informazione uno strumento comunione; meglio, di convivialità delle differenze. Ecco che l’avverbio insieme, da me aggiunto alla storica denominazione della testata per accrescerne l’orizzonte di significato, esprimeva il passo di una comunità ormai in cammino sulla strada della famiglia umana coesa e solidale. Un indirizzo impegnativo ed entusiasmante – di scaturigine conciliare – articolato dettagliatamente nel progetto pastorale per la chiesa locale che assumeva finanche nel titolo il significativo avverbio della comunione a caratterizzarne l’identità e l’ambizione programmatica. In un’assolata domenica di agosto del 1987, don Tonino mi comunicava di essere propenso a designarmi come direttore del settimanale diocesano. Perché intendeva offrire un segno concreto di valorizzazione del laicato alla vigilia del Sinodo dei vescovi su “La vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo”, in svolgimento a Roma dal 1° al 30 ottobre dello stesso anno. Perché apprezzava la collaborazione da me già offerta durante la direzione Minervini e Samarelli, per lo più basata sull’intervista con cui davo la parola a chi ne era abitualmente derubato. Infine perché gli piaceva la mia scrittura, come anch’io ho sempre prediletto la sua: un po’ acqua tersa di ruscello, un po’ brace incandescente; luttuosa e battesimale insieme, terrigna e profetica, crocifissa e risorta come la sua persona. Costituii la redazione, un formidabile gruppo di giovani di non univoca sensibilità religiosa e formazione culturale; definii un innovativo impianto di rubriche, organizzai la rete dei referenti parrocchiali, segnalai il proposito di suscitare un autentico dialogo con la comunità dei credenti senza perdere di vista gli uomini e le donne di buona volontà, i non credenti, i “lontani”. Il giornale sarebbe stato di tutti, per tutti (aperto anche agli arabi sul territorio, a cui davo la possibilità di esprimersi in lingua madre), attento alla realtà, porte e finestre spalancate sul mondo. Avrebbe offerto, per volontà dello stesso don Tonino che non disdegnava di collaborare assiduamente, un’informazione “chiara, tempestiva, aggiornata, accattivante, provocatoria”, che si proponeva di entrare anche “nelle case di chi entra raramente in Chiesa per portare almeno il riverbero dei fuochi del Regno di Dio”. Muovendo da questa impostazione, io per primo ho fatto l’inviato speciale più che il direttore. Per cinque anni sempre in movimento, sveglio come un anacoreta alle tre e mezza del mattino per indugiare nella contemplazione e poi organizzare la giornata e fiondarmi lungo i crinali geografici e storici più insidiosi dove la disperazione e la speranza si contendevano ogni lembo di esistenza umana: la degradata periferia urbana dove cresceva l’esclusione, i sottani umidi e malsani dove si coagulavano frange di povertà, la campagna suburbana che pullulava di sfrattati durante la crisi abitativa degli anni ’80, l’Alta Murgia barese che ambiva a divenire parco naturale anziché terra militarizzata o deposito di scorie nucleari radioattive, i luoghi dove si praticava l’obiezione di coscienza al militare, i moli dove si riversavano i popoli dirimpettai costretti all’esodo dalla miseria e dalla tirannia, le strutture dove finalmente veniva allestita l’ospitalità dignitosa degli stranieri e dei tossicodipendenti, le corsie sanitarie dove risultavano degenti gli affamati di giustizia sociale per aver subito incidenti sul lavoro, le articolazioni delle Caritas cittadine quasi avamposto in cui incontrare il disagio per interpretarlo e lenirlo. Per non dire dei ponti di carta che ci collegavano, ormai, con i migranti e i missionari sparsi nel mondo, e senza trascurare i numerosi traghettamenti verso l’Albania, dove la diocesi, sostenuta dal Settimanale e dalla Caritas, aveva avviato alcune microrealizzazioni nell’ottica dell’evangelizzazione e della promozione umana. Insomma, mi si chiedeva di essere dappertutto – tranne che nelle sacrestie, negli ambienti curiali e negli angusti perimetri del sacro – a sottolineare l’intento missionario della testata, emanazione di una chiesa antesignana di quella di Papa Francesco, così voluta da un uomo venuto anch’egli “dalla fine del mondo”– in Cinquecento, de finibus terrae, cioè dal Capo di Leuca dove termina il suolo pugliese – per approdare, sempre ad opera dello Spirito, come “beato costruttore di pace” con altri Cinquecento, nella Sarajevo assediata dalla guerra e stremata dalla violenza, dove nonostante il drago che lo rodeva dentro e lo scenario spettrale che gli ruotava intorno, ha saputo proclamare la pace senza smarrire la semplicità della proposta cristiana e lo sguardo francescano che tanto lo accomuna all’attuale pontefice. Don Tonino sapeva coscientizzarci sull’arduo ruolo della redazione e rispettare la libertà ivi esercitata nell’impostare ogni numero. Giammai chiedeva di visionare o approvare preventivamente i contenuti, ma commentava ogni pezzo a pubblicazione avvenuta per migliorare l’impegno e l’esito complessivo. Un metodo rispettoso e leale, che ho sempre apprezzato e condiviso anche dal punto di vista educativo. Ci sono stati momenti di oggettiva difficoltà. Come quando ho ricevuto un proiettile in busta chiusa, accompagnato dalla minaccia di morte per non aver taciuto sulle infiltrazioni malavitose nel tessuto cittadino terlizzese. Accadeva alla viglia della convulsa stagione del rogo e del boato, come chiamo il periodo storico culminato in Terlizzi con l’incendio del Carro Trionfale e l’esplosione di un’autobomba a ridosso dell’ingresso del palazzo di città – vulnus inferto alla sfera religiosa e civile – evento anticipato dalla denuncia, sulle colonne del settimanale, del clima mafioso che andava instaurandosi tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta sotto il profilo delinquenziale e del condizionamento del mercato del lavoro. Un altro strappo si verificò durante la Guerra del Golfo, quando il dibattito sviluppatosi nel corso di un consiglio pastorale diocesano degenerò nella richiesta, rivolta al vescovo da uno sparuto gruppo di sacerdoti, di sospendere con effetto immediato la pubblicazione del settimanale e di accompagnarla con la mia destituzione per le “inaccettabili posizioni pacifiste adottate con tanta caparbietà dal periodico”, che a dire il vero era in linea non solo con il vescovo diocesano ma anche con il pontefice San Giovanni Paolo II. Il giornale era atteso e seguito. Talvolta perdeva colpi in parrocchia ma ne acquisiva puntualmente in edicola e con la diffusione per abbonamento. In pochi anni ha raddoppiato la tiratura, raggiungendo e superando le 4.000 copie settimanali. Ha anche incrementato la foliazione fino a triplicarla, sono stati introdotti inserti tematici e tavole illustrative (ricordo il percorso divulgativo sulla Christifideles laici), strumenti per la pastorale in volume e in audiocassetta, motivo per cui la chiusura dei conti in pareggio risultava sempre un’impresa. Con il vescovo “giunto dall’avvenire” ho voluto spendermi all’insegna della gratuità, ricevendo in cambio profonde lezioni di umanità e tre doni che mi hanno ripagato ad abundantiam degli sforzi compiuti, anzi hanno compensato perfino le penalizzanti esclusioni successive alla dipartita di don Tonino. All’inizio dell’impegno, il vescovo mi ha offerto un doppione delle chiavi dell’episcopio, per permettermi di raggiungerlo in ogni momento e di operare senza perdite di tempo, “chiavi” da me interpretate come segno di fiducia e di amicizia; alla fine del percorso, un sorriso di approvazione per l’operato complessivamente inteso, e numerosi “compiti a casa” in eredità. Nel bel mezzo, una copia della Bibbia con l’autografo vergato: “A Renato, servo della Parola e signore delle parole”. Il più bel diploma di laurea che mi sia stato conferito. Oggi, per me, molto più di una reliquia: un sacramento della sua presenza. Sfoglio avidamente quelle pagine, oltre l’introduttiva con dedica. Continuo a interrogarmi sulla Parola attualizzata e inverata dalla testimonianza del vescovo amante dei poveri e della povertà; impegnato per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. L’esperienza di don Tonino Bello è ispirata al Vangelo e in esso dimora. Sono felice e fiero di aver servito in letizia la Chiesa diocesana in sua compagnia e degli umili da lui prediletti. L’invito a rallegrarsi, scritto nel Salmo e nel motto episcopale, diventi presto motivo di esultanza.

Autore: Renato Brucoli
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