Referendum, perché occorre votare
Una scelta verso il maggioritario
di Giulio Calvani
Ci risiamo. Bisogna essere onesti, nessuno può essere ragionevolmente soddisfatto di tornare a votare il 21 maggio per ben sette quesiti referendari a poche settimane di distanza dall’ultima consultazione per l’elezione del Presidente della Giunta Regionale e per il rinnovo del relativo Consiglio (ma non si potevano abbinare? Ah no, sarebbe stato troppo logico, e la politica ormai ha perso questa caratteristica) ma, cosa ancor più grave, ad un anno esatto dalla data in cui fummo chiamati ad esprimerci sul medesimo quesito referendario, in materia elettorale, riproposto oggi negli stessi termini (per certi versi assolutamente incomprensibili. Se lo ricorderà bene chi l’anno scorso provò a dargli una lettura in cabina, ma dopo poche righe rinunciò depresso, ed espresse il suo voto sulla base del convincimento che si era preventivamente formato).
Ma al di là di queste considerazioni istintive che in tutti non possono che determinare un vago e fastidioso senso di rifiuto, bisogna, per onestà intellettuale, fare considerazioni di diverso genere, mediate dalla ragione e frutto di riflessioni più approfondite, e concludere così che andare a votare è un gesto di civiltà democratica prima di tutto, nonché di chiaro indirizzo politico (mi riferisco in particolar modo al quesito in materia elettorale), sicuramente molto più di quanto lo sia stato la preferenza espressa per un candidato nelle recenti elezioni regionali.
Questo forse va oltre il ruolo che la Costituzione attribuisce allo strumento referendario, ma oggi in sostanza è chiesto ai cittadini non tanto in che modo intendono votare, cioè quali e quanti simboli vogliono trovarsi sulla scheda elettorale per le prossime consultazioni, ma è chiesto di scegliere tra due modelli politici, allo stato attuale profondamente in antitesi tra loro e che, evidentemente, la mediazione rappresentata dal “Mattarellum” (cioè la legge elettorale tuttora vigente, con il mantenimento di un 25% di quota proporzionale), non è più in grado di conciliare. Le cronache sulle vicende politiche nazionali lo dimostrano abbondantemente.
Questione quindi squisitamente politica, e per nulla tecnica. Cadono, partendo da queste valutazioni, le tesi di chi sostiene che è assurdo convocare gli italiani per esprimersi su una legge elettorale, dal momento che questa è materia essenzialmente tecnica, quindi prerogativa di chi la politica la “pratica” come arte o mestiere (dal greco “tèchne”). Non si tratta di questo, ma di un quesito che, qualunque risultato dia, inciderà profondamente sul sistema politico, modificando in maniera rilevante i rapporti nel nostro ordinamento. Democrazia vuole che su questo tutti siano chiamati ad esprimersi. A meno che non si voglia sostenere che sia proprio quell’ordinamento, e non solo una legge elettorale, materia esclusiva degli “alchimisti” della politica. Affermare questo, però, andrebbe a ledere pericolosamente il patto sociale alla base della nostra carta costituzionale.
Qui non si intende esprimere valutazioni nel merito dei due sistemi che si confrontano su questo tema (sebbene sia chiaro il pensiero di chi scrive), ma si vuole sottolineare la necessità che su questo vi sia una evidente e solare indicazione del corpo elettorale, in modo che il sistema nel complesso ne tragga le dovute conseguenze. Il mancato raggiungimento del quorum, obiettivo, questo sì, palese di chi si oppone al referendum (l’anno scorso gli stessi personaggi ebbero almeno il pudore di sostenere il voto contrario, oggi invece si battono per il non-voto, in dispregio di chi, per ottenere il riconoscimento di quel diritto, ha realmente combattuto pagando con la vita. Ma anche questo rientra nel fenomeno diffuso di abbrutimento del sistema politico) non si può certo definire tale, così come la stessa Corte Costituzionale ha sostenuto nell’ammettere il quesito.
Due idee della politica, come detto, si confrontano su questo tema. Ma vediamo quali sono (e da chi sono rappresentate) le forze in campo. Da una parte ci sono i sostenitori dell’astensione, chi cioè consapevole di essere minoranza nel paese (ricordiamo che lo scorso anno, sebbene il referendum non passò per mancato raggiungimento del quorum richiesto, i “si” furono superiori al 90%) intende boicottare tale strumento di democrazia diretta, avvalendosi magari della collaborazione di un numero considerevole di persone irreperibili o decedute da tempo (il teatrino sull’aggiornamento delle liste elettorali ha davvero toccato livelli infimi di civiltà) dimostrando quale sia la propria considerazione per le istituzioni e per il corpo elettorale.
L’obiettivo neanche tanto nascosto di questi signori che, solo per ricordarne alcuni, rispondono ai nomi di Andreotti, Zecchino, Berlusconi (ma non fondò la sua “scesa in campo” proprio sul maggioritario e il bipolarismo? Bah!), Mastella, De Michelis, Buttiglione, De Mita, Cirino Pomicino è quello di rifondare la “Democrazia Cristiana”, di riaggregare il centro, inteso più nella sua accezione sociologica che eminentemente politica, per poi porre questa forza a disposizione del “miglior offerente” che sia a destra o a sinistra risulta indifferente. Rifiutano orgogliosamente, in tal modo, una logica che sembrava essersi affermata, cioè quella del bipolarismo (“Io non dico prima con chi sto” ha urlato in una recente manifestazione colui che sembra essersi posto al comando di questo “rinnovato passato”, cioè Sergio D’Antoni), e per poi ripartire con una offensiva proporzionalista, invitano a non votare per il referendum. Scelta costituzionalmente legittima, ma che altrettanto legittimamente sentiamo il dovere di definire inquietante.
Accanto a questo informe polo neo-centrista si pongono forze minori della sinistra (ad esempio Rifondazione Comunista o i socialisti dello Sdi) che temono le conseguenze che una affermazione dei “sì” possa determinare sulla esistenza stessa del proprio partito: preoccupazione comprensibile e per certi versi condivisibile, che porrà delicate questioni per garantire la loro rappresentanza, se il quesito dovesse essere approvato; ma al di là di questo ci chiediamo se possa essere anteposto l’interesse particolare a quello collettivo: questo dovrebbe sempre prevalere.
D’altra parte c’è chi ritiene che il cammino intrapreso debba essere necessariamente portato a termine, che non si possa rimanere a metà del guado, dal momento che il sistema maggioritario e il bipolarismo non sono riusciti a dimostrare fino in fondo quali vantaggi possano portare al nostro sistema democratico, se non per una felice parentesi (l’esperienza del governo Prodi), a causa dei residui proporzionali che hanno determinato una frammentazione e una litigiosità (specie nel centrosinistra) mai conosciute dal nostro sistema: panacea per tutti i mali quindi l’abolizione del 25% di quota proporzionale. Difficile ritenere che questa da sola possa costituire l’antidoto al malessere diffuso della nostra politica, se non è accompagnata da una presa di coscienza del proprio ruolo, e sostanziata da un progresso etico e di contenuti. Un dato è comunque incontrovertibile, da una parte c’è chi vuole tornare indietro (lo slogan è già pronto “siamo il futuro del nostro passato”) utilizzando metodi che sebbene formalmente legittimi (sebbene è giusto ricordare che il raggiungimento del quorum richiesto per la validità di un referendum è una anomalia presente solo nel nostro ordinamento, tra i Paesi democratici che utilizzano questo strumento), risultano materialmente antidemocratici, o quanto meno irrispettosi del volere espresso dei cittadini (sulla dicotomia tra “Costituzione formale” e “Costituzione sostanziale c’è una bibliografia infinita), dall’altra chi intende concludere questa eterna fase di “transizione” consultando il corpo elettorale, permettendo che su un tema di tale rilevanza (ripetiamo, non tanto quale legge elettorale, ma quale sistema politico, considerino più valido) vi possa essere una solare indicazione. Il responso come sempre, lo daranno le urne, e qualunque esso sia, promette di modificare radicalmente gli equilibri del nostro sistema politico.