REFERENDUM – Brutta responsabilità di chi non vota: leggete queste storie e voterete SI'
ROMA – 10.6.2005
Mi ero ripromessa di scrivere qualcosa per "Quindici" sui referendum di domenica e lunedì fin dai primi di marzo, cioè fin da quando le contingenze fortunate mi hanno portata a lavorare come addetta stampa del Comitato nazionale per il Sì. Riesco a farlo solo oggi, a poche ore della chiusura della campagna elettorale, appena uscita dalla doccia, con i capelli ancora bagnati.
Lo faccio perché stasera alle 18 sarò a Campo dei Fiori per la chiusura romana della campagna, ma in fondo avrei voluto essere a Molfetta, a Corso Umberto, a sentire due dei personaggi politici che più stimo in assoluto: Cesare Salvi e Maria Celeste Nardini. E a dare volantini con i miei amici di sempre: Davide, Gianni, Lella e gli altri. So che a Molfetta è stata fatta una campagna referendaria seria e vivace. Dopo molti anni. E ne sono entusiasta perché, benché da distanza, l'ho fortemente voluta e sostenuta. Non certo perché sono parte istituzionale del Comitato nazionale.
Quando io e Davide De Candia abbiamo firmato per questi referendum eravamo a Bologna, per un convegno dedicato a Giovanni Sartori. Questa battaglia ci sta a cuore da mesi. Adesso che è quasi conclusa, tirare le somme e iniziare a fare qualche bilancio, ancor prima dei risultati, è utile e necessario. Leggo che anche a Molfetta il dibattito ha rischiato di incagliarsi nel politicismo più inopportuno.
È stata l'intervista al senatore Azzollini, in particolare, a spingermi a chiedere mezz'ora di permesso dall'ufficio e a tenermi inchiodata qui davanti al computer. Il mio giornale è andato a chiedere al senatore se andrà a votare o no. Non è la risposta che mi interessa. Il punto è: cosa importa? Questa non è una battaglia di senatores. E comunque i "senatori" di questa battaglia non sono solo quelli di palazzo Madama.
Questa è la battaglia di Cinzia, 33 anni, giornalista di un famoso Tg nazionale, al terzo ciclo di Fivet. È diventata infertile per un motivo banalissimo: un'infezione ginecologica tra le più comuni, che le ha occluso le tube. E sta provando ad avere un bimbo, come molte donne della sua età, comunque. Solo che grazie alla legge 40 ogni tentativo è una stimolazione ormonale, un giro sulla giostra della paura, dello stress, dei disagi fisici. Me lo ha spiegato lei "come si fa" la fecondazione assistita. Prima i controlli, ogni due giorni (che vuol dire buchi nella pancia, prelievi); poi il ciclo ormonale, un paio di settimane. Poi l'espianto degli ovociti, che vuol dire un'operazione in anestesia totale, in cui ti bucano l'ovulo con una siringa. Poi la "conta" degli embrioni. «E lo devi dire che se ne produco dieci, loro possono lavorare solo su tre, dopo la legge 40. E gli altri li buttano nel cesso». Poi il famoso lavoro in provetta. E infine l'impianto, che è indolore, poco più di un pap test.
Cinzia è stanca. Questa legge le sta complicando la vita, le sta complicando un percorso già non facile.
Questa è anche la battaglia di Domenico. L'ho conosciuto una settimana fa, mentre organizzavo la conferenza stampa delle oltre cento associazioni di malati che si sono schierati a favore del Sì, scandalizzati dall'impossibilità, dopo la legge 40, di fare ricerca sulle cellule staminali embrionali e di accedere alla diagnosi pre-impianto. Domenico qualche mese fa ha perso suo figlio, un bimbo di pochi anni, a causa dell'atrofia muscolare spinale. Non sapevo cosa fosse, prima di aver visto in conferenza il piccolo Sandro, un peperino di quattro anni, che forse avrebbe voluto saltare e giocare a pallone, come tutti i bambini della sua età, e invece era inchiodato a un carrozzino/sedia a rotelle che muoveva con una specie di joistick. Le manine lunghe e deformi, gli occhi aperti appena. La nonna con lo sguardo triste: «Ma guardi che va all'asilo lui!». La madre forte, a raccontare sempre la stessa storia davanti alle telecamere.
Questa è anche la battaglia di Simona (Di Giulio) e di Luca (Coscioni), che hanno la Sclerosi Laterale Amiotrofica e non possono camminare, non possono parlare, e vanno incontro a morte certa, tra pene atroci, e si battono perché se la loro storia ricapita a qualcuno, fra qualche anno, possa andare diversamente. Potrei andare avanti per ore. Potrei scrivere di tutte le telefonate a singhiozzi che ho ricevuto al Comitato, delle coppie che sono venute a trovarci e dei malati che ci hanno scritto.
All'inizio dicevo "che ci hanno sostenuto, che hanno lavorato per noi". In realtà siamo stati noi a lavorare per loro. Io faccio notte da tre mesi per loro. Faccio notte perché meritiamo un paese più civile di questo, dove la speranza di cura sia un diritto, dove un percorso difficile come quello della fecondazione assistita sia agevolato e non ostacolato, dove il corpo della donna sia salvaguardato dai tentativi di violenza istituzionale.
Racconto un'ultima storia, quella di mia nonna Lina. La mia seconda mamma.
Allegra, forte, in salute. Aveva 75 anni quando una mattina si è svegliata e ha iniziato a dire che aveva i cani nel letto e a girare nuda per casa. Il morbo di Alzheimer le fu diagnosticato qualche mese dopo. Ha vissuto a casa mia dai miei 17 ai miei 19 anni. E dopo quell'esperienza la mia vita e quella dei miei famigliari è cambiata per sempre. In quei mesi ricevevamo a casa il bollettino dell'Associazione Italiana Malati di Alzheimer. E sentivamo parlare delle staminali, come possibilità di guarigione. Ho sempre sperato che un giorno qualcuno mi suonasse alla porta, mi desse una "scatola" di staminali per mia nonna e lei tornasse a essere quella di prima. Era allegra, forte, in salute. Avrei fatto di tutto per riaverla indietro. Dovevo dirle ancora tante cose. Mia nonna, invece, se ne andò nel giro di un paio di anni. Morì che pesava 40 chili.
Quando penso a Sandro e al suo carrozzino/sedia a rotelle che muove col joistick penso che la storia di mia nonna non valga più la pena di essere raccontata. Poi penso anche che si tratta di un'unica, grande storia.
Chi ha deciso di non andare a votare domenica e lunedì si è preso la responsabilità di non dare retta a queste cose, di non ascoltare queste storie. È una bella responsabilità. Anzi è brutta.
Fortunatamente ci sono ancora 48 ore per cambiare idea.
Paola Natalicchio