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Qualche imprecisione
15 maggio 2004

Egregio Direttore, compro da diversi anni il Suo bel giornale, soprattutto per gli articoli di cultura, che sono veramente di ottimo livello e che catalogo con cura nel mio archivio di ritagli. Mi complimento vivamente con Lei per aver saputo coinvolgere collaboratori così preparati. Ma in “Quindici” di marzo ho notato un articolo che non andava. Volevo scriverle subito, però ho desistito, perché una rondine non fa primavera. Sen non che, anche in “Quindici” di aprile ho notato lo stesso problema e quindi mi sono deciso a scriverle. Ho visto che Lei ci tiene alle novità e agli inediti. Bravo! Allora perché pubblicare articoli vecchi o doppioni come quelli del Sig. Cosmo Tridente? il terremoto dell'11 maggio 1560, apparso su “Quindici” di aprile, era vecchio di ben tre anni (!!!) essendo stato già pubblicato in “Luce e Vita” del 6 maggio 2001. Inoltre inserisce suppliche in dialetto alla Madonna dei Martiri che sono solo immaginate (!!!), ma non esistono nel vero folklore! Ricordi della settimana santa d'altri tempi a Molfetta, apparso su Quindici di marzo, è uscito pure su Luce e Vita del 28 marzo scorso. Come se non bastasse quest'ultimo articolo contiene diversi errori marchiani. Il Sig. Tridente cita per la Settimana Santa, che cade in marzo o aprile, un proverbio di maggio! (U mèise de mèsce fòere la chèmèsce, inserito solo per citare un proprio libro). Scrive che allora si usava mangiare pasta con alici e mollica soffritta. Ma si usa tuttora! Dice che l'usanza dei piatti dei Sepolcri è scomparsa, invece qualche chiesa di Molfetta li ha rimessi in uso negli anni '80-'90 del '900 e anche negli ultimi anni i piatti si sono rivisti qua e là! Parla di mutazioni liturgiche dovute al “Concilio Vaticano II, iniziato da Papa Giovanni XXIII”, invece i cambiamenti quaresimali e pasquali sono iniziati dal 1956, cioè sotto Pio XII (!!!). Così si fa disinformazione e si danno notizie errate ai lettori in generale e ai giovani e ai ragazzi di scuola in particolare. In mancanza di articoli nuovi e precisi sulle tradizioni popolari, perché non ricorrere ai bei libri di Gerardo De Marco, pubblicando qualche stralcio ad hoc? Chiedo scusa all'articolista e a Lei per le precisazioni e lo sfogo, ma un maggiore impegno da parte di tutti renderebbe ancora più bello e utile il giornale da Lei diretto. Lettera firmata Risponde Cosmo Tridente Cortese, per quanto obiettore, amico - mi permetta d'appellare così una persona, lei, che legge i miei scritti con tanta attenzione, da serbarne memoria a distanza d'anni (mi riferisco al mio breve saggio, "vecchio di ben tre anni", apparso per la prima volta nel maggio 2001) - rispondo volentieri alle sue obiezioni, che mi danno la possibilità di chiarire le mie intenzioni ed opinioni. Non mi disonora l'aver riprodotto miei scritti, quanto farebbe il plagiare scritti altrui; né cercare per le mie memorie e ricerche sia un pubblico definito, qual il parrocchiale, sia un altro pubblico, non definito, direi laico, per intendere ampio ed onnipresente. Neppure mi disonora il tentativo, attraverso l'autocitazione, d'accreditare mie precedenti ricerche, rinvenibili ancora nei luoghi di vendita. E' un prodotto immesso anch'esso in un mercato: librario, ma sempre mercato. Tra serio e scherzoso potrei opporre alla sua esigenza di puntualità stagionale la puntualizzazione che la "chèmèsce" abbonda, non nasce in maggio così, come (altra mia autocitazione dallo stesso libro) le "trègghie de settìembre (é àcchiate d'ogn'é tìembe)" non sono esclusive di settembre. Ho riprodotto in differenti organi di stampa miei precedenti lavori, sì, ma non sempre identici. La mia ricerca (in sede scientifica universitaria!) sul terremoto, divulgata tra un pubblico, come ho detto, definito, perché non portarla (mi son chiesto) ad un pubblico più ampio? Con l'aggiunta dei risultati d'ulteriore ricerca (su un manoscritto, badi bene, del Cerrotti, che non è in pubblico consultorio). Quei risultati, pubblicati nella loro esiguità informativa e privi d'un contesto che li giustificasse, non sarebbero stati divulgabili. Poiché era facile congettura su un evento del non tecnologico 1560, non ho avvisato il lettore che, finito il "pezzo" scientifico e storico, passavo all'opinabile: un colloquiale intrattenimento con i miei concittadini, dotato d'un "sapore paesano" per mezzo di probabili implorazioni dialettali e d'un conclusivo assenso al comune pio sentire. Passo alle tradizioni pasquali, per dire che ciò che un tempo fu consuetudine quasi prescritta (piatti dei "sepolcri", pasta con alici e mollica), oggi non è più tale: il che non comporta che quegli atti siano del tutto estinti. Ma non ha scritto lei che "una rondine non fa primavera"? Infine la sua lamentela sull'imprecisione dataria delle mutazioni liturgiche, che iniziarono quando fu, ma subirono un'accelerazione dal Concilio detto. Ho nozione del Novus Ordo del 16.11.1955 sulle funzioni immediatamente prepasquali. La mia espressione consuòna quasi verbalmente con quella d'uno scritto d'Orazio Panunzio, che intendeva, credo come me, rimarcare il periodo più fecondo di "svecchiamento" (Panunzio scrisse "ondata di rigenerazione"). Lei invoca la ripubblicazione degli scritti di Gerardo De Marco, di cui volentieri mi professerei discepolo, tuttavia precisando che non m'è dato leggere in lui una ricerca eseguita in ambito scientifico universitario. L'ho sempre per maestro, ma chiedo: perché fermarsi a "don Gerardino" (come affettuosamente è stato appellato nella recente rievocazione dell'Università Popolare)? Perché chiudersi nel passato? Per fare un esempio, su cui si possa concordare, Dante è grande, i tempi tuttavia hanno "camminato", anche iniziando da lui, ma opportunamente andando oltre. La saluto riconoscente per quest'occasione e spero che mi legga ancora con attenzione. Io m'impegno ad meliora. Suo (mi auguro) Cosmo Tridente
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