Politiche, come in Grecia: secco niet all'Europa dei banchieri e dell'austerity
Il M5S di Beppe Grillo vince, anzi stravince. Ma non è solo un voto contro la casta. Usciti pesantemente sconfitti da queste elezioni, sono i partiti pro-austerità, sia nella versione più radicale, interpretata dalla coalizione di Mario Monti, che nella versione apparentemente più temperata di PD&SEL. Entrambi questi schieramenti hanno giocato la campagna elettorale proponendo il nesso sacrifici - Unione Europea - crescita come unica soluzione per risolvere la crisi e mantenere pulita l’immagine del Paese nel contesto internazionale. Una proposta inaccettabile per buona parte della base elettorale del centrosinistra, poco incline a fidarsi in questa occasione dei timidissimi richiami alla tutela dei diritti sociali residuali. Anzi, disposta a riconoscere negli slogan anti-crisi del Movimento 5 Stelle una chiave di volta per difendere il proprio tenore di vita dagli attacchi dei governi delle banche. Silvio Berlusconi ha solo saputo fiutare il vento. Era dato come grande sconfitto per tutta la campagna elettorale e, invece, ha mantenuto quasi immutato il quadro dell’elettorato di riferimento, perdendo molte quote di consenso solo sul fronte leghista. I voti recuperati da Berlusconi, rispetto al minimo storico toccato dallo stesso sino a qualche mese fa secondo i sondaggi dei principali istituti di rilevazione, sono voti contro l’austerità e non a favore dello stesso. In sostanza, milioni di elettori hanno puntato il dito contro l’Europa della Merkel, contro l’Europa dell’austerità recessiva. Tra l’altro, il grande segno di rifiuto della classe dirigente nazionale e delle spending review alla Monti promana dall’impressionante successo del Movimento 5 Stelle, che consolida la sua base sbranando quelli che un tempo erano gli elettori del centrosinistra e della sinistra cosiddetta “alternativa” (che ha fallito il rientro in Parlamento attraverso l’escamotage Ingroia). Astensione, tanta (non spiegabile solo con la sfiducia nei confronti della politica, o peggio, con il generale inverno, ma come reazione rabbiosa nei confronti dello stallo economico). Il consenso in ripresa del PDL e il grande successo del Movimento 5 Stelle delineano una profonda ostilità alle misure lacrime e sangue e ai diktat della BCE. Si tratta di un’ostilità ancora acerba, attraversata da forti contraddizioni, tonalità contrastanti e grandi limiti, che in questa occasione si è tradotta in una prima prova di destabilizzazione del sistema dei partiti e del quadro istituzionale. Tutte le forze politiche che hanno proposto il binomio sacrifici-crescita, sia nella versione dell’alternativa di sinistra che nella continuità con i tecnici, sembrano essere state sconfitte e impossibilitate a governare. Guai a condannare il fenomeno Grillo, senza sforzarsi di comprenderlo. Come nelle elezioni in Grecia, anche in Italia voto e astensionismo hanno dichiarato un secco niet all’Europa dei banchieri e dell’austerity e, forse, un netto rigetto nei confronti dell’euro, tra l’altro sparito anche fisicamente dalle tasche di molti italiani. Adesso, la patata bollente è nelle sole mani di Pierluigi Bersani. Coraggio o soccombenza politica definitiva: è questa l’alternativa, non ci sono vie di mezzo. Se il PD vuole essere davvero il partito delle riforme, dovrebbe proporre subito una serie di nuove leggi: quella elettorale, una seria legge anticorruzione, la reintroduzione del falso in bilancio, una normativa sul conflitto d’interessi, la cancellazione della prescrizione una volta cominciato il processo, il cospicuo taglio delle spese della politica, l’annullamento dei finanziamenti pubblici ai partiti, l’abolizione di tutte le province, la revoca degli ordini degli F35, dell’IMU e dell’IRAP. Il M5S non potrà non votare a favore di questi provvedimenti di radicale cambiamento (il tetto alle pensioni d’oro, per esempio) e Berlusconi scomparirà definitivamente dalla scena politica e non sarà più candidabile. Non si parte, però, da zero: c’è il “laboratorio siciliano” che può essere mutuato su scala nazionale. Infatti, il governatore siciliano marca, ormai da anni, le distanze dal PD, mantenendo da sempre posizioni “eretiche” all’interno del suo partito. La sua lista (Il Megafono) sembra un progetto a lungo termine che secondo alcuni osservatori mira alla lunga a staccarsi e liberarsi definitivamente dal PD. La grande capacità del governatore siciliano è stata quella, in tempi non sospetti, di saper dialogare a Palermo con il M5S, dimostrandosi in questo un “cane sciolto”, capace di assestare colpi bassi alla partitocrazia siciliana, senza guardare in faccia a nessuno, compresi i partiti che fanno parte della sua maggioranza. Sul MUOS, per esempio, Rosario Crocetta ha assunto una posizione e dei provvedimenti radicali. Il PD a Roma sarebbe capace di assumere la stessa posizione su un argomento simile? A Molfetta, per esempio, i dirigenti piddini sarebbero disposti (e capaci) a seguire il percorso del governatore siciliano per una vera svolta alternativa? È un quesito su cui, forse, sarebbe opportuno non rispondere, visto che, a quanto pare, stanno riesumando e cercando di mutuare un “percorso” vecchio di oltre due decenni, non adatto ai tempi attuali, frutto delle nostalgie politiche dei suoi dirigenti che non hanno compreso che il mondo negli ultimi 20 anni è radicalmente cambiato (come pure il modo di fare politica). Vedremo davvero questo interessante modello siciliano applicato anche a Roma? In teoria è possibile. Nella pratica, c’è un abisso tra le due situazioni. E, in tutta onestà, è da dubitare fortemente che Bersani abbia le stesse qualità politiche di Crocetta. Ma non è detto: è possibile che tiri fuori tutto quello che ha dovuto contenere in un anno e più di abbraccio, quasi mortale, con il proconsole delle banche Mario Monti.