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Paloscia, Ritratti 1966-2013, a cura di Gaetano Mongelli
15 giugno 2014

Elegante nella veste tipografica e nelle riproduzioni fotografiche il bel catalogo “Paloscia, Ritratti 1966-2013”, curato dal prof. Gaetano Mongelli, docente di “Storia della comunicazione visiva e oggettuale” presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Il volume, edito per i tipi della Nuova Mezzina Arte, contiene ben 227 tavole di riproduzioni fotografiche dei ritratti di Michele Paloscia. Bella anche la copertina, in cui campeggia “Dedicato a Rosalba”, ritratto a carboncino e tocchi di pastello su carta. Il catalogo è stato realizzato in occasione della personale dell’artista, allestita presso la Sala dei Templari tra il 12 e il 26 aprile 2014 e curata dallo stesso Mongelli. Esso, tuttavia, non raccoglie esclusivamente le opere dell’antologica, ma è un vasto florilegio della ritrattistica dell’artista, dal bell’autoritratto in stile postcaravaggesco (1966) all’”autoritratto con l’amico Gaetano Mongelli (effetto controluce)”, olio su tela dipinto nel 2013. Quest’ultimo diviene emblema del sodalizio amicale all’origine della mostra, che si riverbera, con affetto e nostalgia, nelle pagine dell’accurato scritto di Gaetano Mongelli, raffinatissimo accessus all’opera del pittore molfettese. Con Erich Fromm in epigrafe a riflettere sul mistero straordinario della creatività, il curatore del catalogo regala pagine intrise di doctrina e di umanità, in un poderoso caleidoscopio storico-artistico. Il dato biografico di Paloscia si rinsalda all’autobiografia di Mongelli ed entrambi vengono proiettati in un percorso sinuoso tra tradizione pittorico-letteraria, che da “ingegnose pecchie” i due artisti suggono con voluttà, e rivoluzioni dell’arte novecentesca (si pensi ai riferimenti a Solomon Sol LeWitt e all’arte concettuale). A tale itinerario ben si attaglia la definizione di ritratto come “incontro di totalità”, che Mongelli, rifacendosi a Simmel e all’esempio del Ritratto del Castiglione di Raffaello, esplica durante il suo viaggio nell’opera di Paloscia. L’amicizia tra il letterato e il pittore produce, infatti, una duplice tendenza a ritrarsi: Paloscia restituisce più immagini di Mongelli, a partire dalla figurazione giovanile, in cui egli appare “salcigno e pensoso”, per poi muovere alla più recente (la tav. 227 del catalogo). Lo storico dell’arte ritrae a sua volta il pittore, in una continua interferenza tra arte e letteratura, e, nel pennellarne con affetto l’immagine, finisce con il raccontare anche di sé e “della favola [...] che si tentò di narrare a Molfetta tra il ‘70 e il ‘73, quando un intero quartiere del borgo medioevale fu adibito a mostra permanente”. Rivive l’esperienza di via Amente, tesaurizzata nella metafora dell’ipogeo, insieme agli happening che coinvolgevano, oltre a Paloscia, Allegretta, Addamiano, Mongelli, Lunanova, Zaza, Veneziano e altri artisti. È quasi un’epopea quella che Mongelli rievoca con nostalgia, senza mai ripiegare verso una sterile laudatio temporis acti. L’esame dell’esperienza della produzione di Paloscia non è limitato all’ambito della ritrattistica; essa viene sì privilegiata, ma come sineddoche di una più vasta dedizione all’osservazione del reale, che talora vira verso espressioni di carattere simbolico (il dipinto Lectura, che raffigura la moglie-Musa Rosalba, immersa nelle fantasticherie scaturite da un buon libro) o addirittura punta all’allegorismo sub rosa delle Poesie della memoria. La carriera dell’artista è seguita sin dalle sue prime prove, quando a sedici anni replicava la bellissima Fucina di Vulcano di Velázquez, manifestando già la predilezione per quel nume del Seicento spagnolo che, accanto a John Singer Sargent e a Vincenzo Gemito, sarà uno dei suoi ineludibili punti di riferimento. Momento particolarmente interessante è quello in cui è tracciato una sorta di florario dei dipinti del Nostro e vengono chiarite le polisemiche valenze legate alla presenza di fiori in alcuni suoi ritratti. Mongelli si sofferma anche sull’attenzione di Paloscia al mondo dell’infanzia, che rappresenta con peculiare felicità nei molteplici ritratti di Andrea, ma anche in altre opere, come il ritratto della piccola Lia, a proposito del quale Mongelli si sofferma a esaminare la simbologia dell’”ombrellino giallo”, “associato all’autorità e alla dignità del sole”. Per l’artista molfettese, la ritrattistica non è mai mera fedeltà al “dato retinico”: egli coglie l’essenza dei soggetti rappresentati, snudando il “volto” dalle maschere che ne offuscano le fattezze. Punto di approdo del catalogo l’arte sacra, con il Lazzaro. Con la resurrezione dell’uomo di Betania, l’accessus alla pittura di Paloscia si conclude, con il richiamo alla riflessione di Enrico Pennach sulla persistenza del ritratto nell’era della fotografia e l’asserzione che l’arte, come l’araba fenice, è destinata sempre a risorgere dalle sue ceneri.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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