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Omaggio a Molfetta di Ada De Judicibus Lisena  
15 maggio 2007

L'elegia dolceamara di una città azzurrina nei ricordi d'infanzia, il canto d'amore per un mondo arcaico fatto di madie odorose, di salsedine, dei ghirigori di un vernacolo ora saputo ora dispettoso... È la seconda edizione di “Omaggio a Molfetta nel centenario dell'Università Popolare Molfettese” di Ada De Judicibus Lisena, con una nuova, bellissima presentazione di Giovanni de Gennaro, ch'evidenzia “la forza espressiva del nitido periodare di Ada sulle cose del suo piccolo mondo molfettese”. In copertina l'onirico “Labirinto di scale” di Marisa Carabellese, un olio su tela, ch'evoca smarrimenti dell'anima un po' fanciulla, tra grate da cui traspare la tenebra e scorci di cielo terso. Labirinti, bianchi di lenzuola fresche, anche per Ada, popolati da un nume tutelare, una “piccola nonna arcana”, legata a ricordi di cucina. A un “dolce di guerra”, su cui piovvero “lacrime silenziose” per il destino incerto d'un figlio in guerra, o al rituale sacro-profano che la induceva misteriosamente a segnare il pane caldo con una croce odorosa. Riemergono anche altre figure dell'infanzia, tra cui la madre della poetessa, “tutta rossa di balcone / danzante e giovane come la neve”. Neve che Ada bambina non amava, ma che, in un clima da fiaba popolare, si carica di piacevolezza perché posta in correlazione con il “soffice gelato” di vincotto, che la mamma preparava in giornate nevose. Le pagine più belle sono legate all'infanzia, alla figura paterna, all'incidenza della musica di Verdi sulla sensibilità della giovanissima scrittrice. Ada appare divoratrice di miti e di testi letterari, che interiorizza giungendo al punto di scorgere, nel viso di un soldato tedesco, le sembianze del Pelide Achille, restandone poi in incantevolmente garbata contemplazione. Un'acchiappanuvole che si sente un po' wagneriana ondina, o, da bambina, reginetta di corona in un giorno di passeggio lungo un Corso simile a un “rosso tappeto”, su cui s'affacciano le vetrine “specchi d'oro”. Una giovane che crescendo dà voce a una malinconia sommessa, mai disgiunta da un indefettibile amore per la vita, per le piccole cose di un piccolo mondo antico-moderno. Per i fichi freschi che il custode del suo giardino le porge con un sorriso su “panieri roridi di campagna” o per le pesche, con la loro “tenerezza guerriera”, così somiglianti a questa terra, che lotta quotidianamente per la sopravvivenza. È una poesia, quella d'Ada, con cui il lettore entra subito in sintonia: chi non ha bevuto con gioia la quiete ariosa dei vicoli d'estate, quando persino la nostra ombra ci sembra amica? Qua e là rivive la reminiscenza letteraria, ma si tratta più che altro d'una certa consonanza d'atmosfera, come in “Esilio (II)”, che ci pare richiamare la solitudine dell'aratro di “Lavandare” con il suo sgomento senso d'abbandono. Si respira a pieni polmoni la leggenda, come nel caso della poesia dedicata alle monacelle, al loro amore dannato, al loro essere “impure” per il senso comune, ma limpide agli occhi di Dio tanto da trasformarsi in gabbiani e spiccare il volo. Chiudo con il bellissimo inedito, “Il destriero”. C'è molto dei temi più cari alla poesia d'Ada. In apertura un'immagine di morte, quella di una tortora agonizzante nella stagione, che segna il rivitalizzarsi della natura, la Primavera. Alla sua agonia fa da contrappunto un fremere “di lucertole nuove”. La poesia d'Ada è spesso questo: malinconica elegia di un passato che vive nella memoria, speranzosa contemplazione d'ogni nuova nascita. Perché la Vita “è un caparbio condottiero / che non piange la perdita dei fanti”. E al pianto per un albero malato cui hanno reciso la chioma subentra il sorriso. Per il miracolo di una nuova aurora.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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