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Olio, tempeste e contrabbandi
15 ottobre 2009

A partire dal terzo decennio del Settecento fi no agli anni ’90 dello stesso secolo, pur con una certa discontinuità dovuta a crisi produttive o a eventi bellici, si assiste nella fascia costiera pugliese che va da Trani a Monopoli ad un fenomeno di grande interesse economico: l’esportazione via mare i derrate olearie. Esso è stato oggetto in passato di numerosi studi, a cominciare da quelli di Mario Assennato e Patrick Chorley; più recentemente ricorderò quelli di Biagio Salvemini. Le città di smaltimento furono soprattutto Ferrara, con gli scali di Goro e Pontelagoscuro, e poi Trieste, Fiume, ed altri porti istriani. Nelle brevi note che seguono sceglieremo come osservatorio la nostra Molfetta, patria dei cosiddetti “olandesi dell’Adriatico”. Essa fu infatti tra le maggiori protagoniste di quel traffi co. Il commercio di questo prodotto ha in realtà una storia molto più antica, e proseguirà anche nel corso dell’ Ottocento, così come è noto che anche dal porto di Gallipoli, per secoli, fu esportato olio su navi prevalentemente inglesi e olandesi. E tuttavia, negli anni centrali del XVIII secolo, quel fenomeno ha in Terra di Bari delle proprie peculiarità che possiamo così riassumere: grande quantità di prodotto esportato, ma altrettanto grande numero di soggetti interessati; grande diversifi cazione delle modalità di esportazione e commercializzazione; scarsa corrispondenza fra il numerario realmente disponibile e quello necessario ad onorare le scadenze del giro cambiario. Ne derivarono cospicui e veloci arricchimenti, con conseguenti ascese sociali, ma anche rovinosi fallimenti, soprattutto in concomitanza con il calo della domanda. La necessità di eludere il carico fi scale, la discontinuità delle opportunità, la precarietà dei ricavi, la mancanza di un’organizzazione commerciale che stabilizzasse i tassi di profi tto, impose diff use pratiche di contrabbando, ed altri reati legati al traffi co marittimo. Vediamo ora di rendere meno barbosa questa storia, narrando alcune vicende di uno dei tanti “padroni” che tentarono la fortuna in quegl’anni. Ci aiuterà, ma non troppo, la fantasia. Andiamo sul porto di Molfetta in un mattino di primavera del 1745: sono attraccati al molo tre trabaccoli. Due sono deserti, il terzo sta ultimando il solito carico d’olio: è il battello di Mauro Giacomo de Candia, proprietario e comandante. Dopo qualche minuto il “Madonna dei Martiri e l’Anime del Purgatorio” salpa l’ancora, molla le cime e, con l’aiuto di quattro lunghi remi si allontana lentamente dalla banchina. Poco fuori gli otto uomini di equipaggio issano le due grandi vele al terzo, recitando con medesima devozione preghiere e scongiuri. Infi ne si cala del tutto il pesantissimo timone: il trabaccolo prende il largo; mancherà da Molfetta per alcuni mesi, e tornerà alla fi ne dell’estate, pirati e tempeste permettendo. Il capitano ripone al sicuro le sue poche cose, e soprattutto un documento rilasciatogli dalla Dogana di Molfetta, sul quale torneremo: la polizza di carico. Ma a chi è destinato l’olio ammassato nella stiva e sulla coperta? Come e da chi è stato comprato? Qual è il ruolo di Mauro Giacomo in tutte le fasi della compravendita? Schematizziamo per esigenze di spazio e maggiore chiarezza. Primo caso: il battello viene dato in noleggio; è un semplice vettore di merce varia che viene spedita via mare dal proprietario all’acquirente. Mauro Giacomo ricava soltanto il costo del nolo. È il caso meno frequente. Secondo caso: la merce viaggia “a cambio marittimo”. Numerosi soggetti prestano quote diverse di denaro al comandante, perché questi acquisti e venda l’olio dove e come riterrà più opportuno. Se l’aff are riesce, riavranno il prestito, maggiorato di un discreto interesse. In caso di perdita del carico, per tempesta o per altre cause di forza maggiore, perdono il loro denaro senza indennizzo. Come vedremo, questo sistema provoca qualche tentazione nei nostri intraprendenti “olandesi”. Terzo caso: il nostro trasporta partite d’olio appartenenti ad uno o più proprietari molfettesi, presso i quali gode piena fi ducia. Giunto a destinazione, cura personalmente la vendita della merce, percependo una percentuale e diventando una sorta di agen-te. Questa operazione può svolgersi in scali diversi e può durare anche dei mesi. Questo perché in genere gli operatori molfettesi non dispongono in alto Adriatico di una rete suffi cientemente estesa ed affi dabile di commissionari, che possano informarli per tempo delle oscillazione del mercato, e curare stabilmente i loro interessi. Quarto caso: il comandante acquista la partita d’olio, la trasporta sul suo trabaccolo e la vende nel nord, tutto per suo conto. Poiché non dispone del capitale necessario, lo chiede in prestito a fi nanziatori regnicoli, in genere napoletani, emettendo delle cambiali. Giunto nei porti di smercio, vende la merce a commercianti locali, ferraresi o triestini, che pagano a volte in contanti, ma più spesso, difettando di liquido, sottoforma di tratte. Questo sistema consente al Nostro, così come a tanti altri “padroni” molfettesi, di investire cospicui capitali in grosse partite d’olio, di lucrare parecchio denaro e, se va bene nel tempo, di arricchirsi. Ma è evidente che esso funziona se la solvibilità triangolare permane al termine della dilazione. Se invece uno degli attori, per vari motivi, rimane, o dichiara di essere, a secco, i nostri “capitani” si impantanano in ulteriori prestiti, in protesti, e alla fi ne falliscono. I triestini erano fra gli operatori più “a rischio” in questo genere di aff ari. I casi che precedono, per necessità di spazio, sono di tipo “puro”. In realtà i carichi a regime misto erano sicuramente più numerosi, così come quasi sempre Mauro Giacomo non agiva da solo, ma in compartecipazione, in genere con parenti. Quella dei de Candia era infatti, nei suoi diversi rami, una delle famiglie più interessate al negozio marittimo. Finora abbiamo parlato del Nostro e della sua attività inquadrandolo in uno schema teorico. Vedremo ora di verifi - care quanto detto, proponendo alcuni documenti che lo riguardano. Ma prima è necessaria una premessa. Nel ‘700 la vita sul mare del “padroni” molfettesi era a rischio, e non soltanto per inconvenienti legati al commercio. Non si comprendono la loro mentalità e comportamento se non abbiamo presente che oltre al debito inevaso, due altri spettri aleggiavano costantemente sui loro battelli: la morte per acqua e l’assalto dei pirati. Molta spregiudicatezza negli aff ari, quindi, ma altrettanto coraggio sul mare. 25 novembre 1733. Mauro Giacomo dà in noleggio il suo trabaccolo “ben accomodato, ancorato e stagno”, a don Giuseppe Lopez di Trani. Trasporterà fi no alla “punta e porto di Goro tomola mille di grano, di tomola trentasei a carro”, e lì farà la consegna a persona di fi ducia del tranese. Il nolo frutterà al molfettese centotrenta ducati, dei quali metà alla partenza, e metà al ritorno. Il 17 marzo 1735 da Pirano, il Nostro scrive a don Mauro Minervino, proprietario molfettese, che gli ha affi dato il trasporto e la vendita in Istria di una sua partita d’olio: “tutto il capitale dell’olio li consegnarò al signor Grisoldi in Veglia, con farne le rimesse in Bari, a vostra disposizione”. La lettera, molto bella, descrive anche un fortunale, con la terribile rottura del timone, ed un assalto di pirati. Il tutto raccontato con un linguaggio tanto stentato quanto ammirevole nella sostanza. Mauro riferisce di tempeste e corsari con l’imperturbabilità di chi sa bene che questi eventi sono la quotidiana normalità della sua vita di marinaio. Vent’anni dopo, il 1755, egli è ormai un maturo e benestante armatore. Possiede case, terre, ed oliveti, vive nobilmente nella sua casa palazziata alla strada dell’Ammenda, ed è anche Console Generale Veneto per le province di Bari e Capitanata. In quello stesso anno, insieme ad un suo parente, Lazzaro de Candia, stima sul porto di Molfetta gli “armiggi” della barca “pescareccia” di don Salvatore Cozzoli. Eppure il nostro eroe non resiste alla tentazione di far fortuna gabbando quelle leggi che ha visto mille volte violare sul mare. Avvalendosi della sua carica di Console, favorisce la vendita a due mercanti molfettesi, Tommaso Fontana e Ignazio Minervini, accusati a loro volta di ricettazione, di un carico di tavole rubate a sudditi veneti. Viene destituito, ma non sembra aver subito ulteriori conseguenze. La violazione era insomma la regola. Dieci anni dopo, nel 1765, un Corrado de Candia incassa tremila ducati a Molfetta per acquistare in Istria merci varie a cambio marittimo. Raggiunta la costa dalmata aff onda la barca che aveva riempito di paccottiglia, e torna in patria simulando un naufragio. Ma il battello non va a fondo: i dalmati lo recuperano e ne danno notizia a Molfetta. I cambisti, giustamente inviperiti, chiedono al Vescovo che fulmini scomunica contro di lui. Questa volta gli è andata male. Vi era un altro mezzo per eludere sistematicamente la rapacità del fi sco: la manipolazione delle Polizze di Carico, vale a dire di quei documenti contenenti natura, entità del carico, contratti di compravendita, che ogni comandante doveva obbligatoriamente tenere a bordo. Vediamo cosa dica a proposito il Direttore della Borsa di Trieste, pressato dai locali esportatori, feroci nemici dell’evasione quando è al loro danno, ma pronti a chiudere entrambi gli occhi quando colpisce le fi - nanze napoletane. Il funzionario chiede formalmente all’Intendenza Commerciale triestina di intervenire presso il console napoletano ivi residente, perché conceda ai “padroni” pugliesi il visto di ritorno, senza richiedere prima gli atti di vendita dei loro carichi d’olio. Ed aggiunge: “I padroni di barche pugliesi non manifestano la vera quantità di generi che imbarcano alle dogane napoletane, onde giunti a Trieste passano alla vendita e ci fanno avvantaggi… se venissero obbligati a dar fuori li loro contratti, e massime al console della nazione, sarebbero costretti ad abbandonare aff atto questa piazza”. Insomma, i nostri capitani non fanno i contrabbandieri perché “geneticamente predisposti”, come in proposito potrebbe blaterare oggi il signor Bossi in uno dei suoi squallidi deliri, ma semplicemente perché costretti da un sistema organizzato e imposto in perfetta sintonia da potenti speculatori: “padani” o “terroni”, non fa diff erenza. Dobbiamo ora lasciare Mauro Giacomo de Candia, un po’ mercante e un po’ bandito del mare, con l’auspicio che le ricerche sulla storia avventurosa della nostra marineria settecentesca possano continuare ed ampliarsi. Mi piace concludere con le parole di un grande storico, Ruggiero Romano. “Ma, è evidente, dietro le argomentazioni portate, dietro le cifre esposte, qualcosa di più delle cifre si nasconde: una realtà umana, una società, del lavoro sudato che braccia umane svolgevano quotidianamente. Quotidianamente: attraverso il pericolo, giocando la libertà contro i corsari, rischiando il carcere nella violazione delle leggi, nel contrabbando, nel camuff arsi di bandiera, nel parzialmente o nullamente rispettare i contratti stipulati. Un mondo in lievito, questo dei mercanti e dei marinai meridionali. Assurti ad una coscienza mercantile da poco tempo, si lanciano nelle imprese commerciali con l’entusiasmo dei neofi ti… Tale la ricchezza della documentazione, da porre un solo problema: quello della esposizione. Problema che per me si risolve solo con il rimpianto che per questo aspetto umano del fatto economico, non sia possibile una rappresentazione grafi ca che in breve tratto possa chiaramente esprimere quanto è manifestato da una massa di elementi”.

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