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Non alla luna, non al vento di marzo, le liriche di Gianni Palumbo
15 dicembre 2007

Nella prefazione a questa silloge di liriche di Gianni A. Palumbo (Non alla luna, non al vento di marzo, Fasano, Schena editore, 2006) Pietro Magno, dopo aver rilevato le letture poetiche dell'autore dai miti dell'Ellade ai “Fiori del male” e oltre, scrive: “... i contrasti fanno bene alla poesia così come il ritorno a quel fanciullino che si trova in ciascuno di noi. Il diffi cile, e qui ci vuole talento unito alla preparazione, è riuscire a svegliarlo, togliendolo dalla troppa soggettività, per farlo partecipe di chi lo vuole ascoltare dall'esterno”. Il giovane Palumbo (apprezzato redattore di Quindici) ha già nel suo iter di scrittore romanzi, opere teatrali, nonché studi di lessicografi a e trattatistica del '500. Allora una poesia cerebrale la sua? Certo, e, anche: si avvertono letture e meditazioni su quelle letture, come si avverte che scatta la rigenerazione emotiva attraverso l'imeneo di miti antichi e moderni, mostruosi o fi abeschi, in un verso ispirato che è solo di Gianni A. Palumbo. Allora la lirica diventa “...l'ortica / sulla cute dei pedanti”! Nessuno ha mai visto un gatto sgranocchiare fi ordalisi? Ebbene, io sì; nelle liriche di questa silloge nella quale il vento e la luna sono invano esclusi come testimoni fallaci e interessati. “Dà dolore. / A volte è anche banale / l'eclissi di un amore.” Il banale del quotidiano, dell'incomprensione, del dolore..., diventa oggetto del poetare. Solo così, forse, si riesce ad oggettivarlo, a diagnosticarlo come inevitabile articolazione dell'esistenza cui contrapporre, nella mente e nel cuore, programmi sfrontati e alternativi. Pasolini direbbe “scandalosi”. “Non turbare / i petali del meriggio / domandando della mia anima. / La troverai seduta là / dove si perde il giorno, / nell'infi - nita attesa / dei tuoi occhi”. Verso spregiudicato quello del Palumbo che usa la “volgare” espressione per rispetto alla realtà effettuale del vivere. Infatti non vuol tacere “sorrisi senza denti” e di Bari scrive: “Le hanno violentato / anche l'anima. / Eppure offre il culo / ai passanti come fosse / un campo di margherite.” È odio-amore per la città nella cui Università s'impegna a capire, a diagnosticare i signifi cati dei testi, delle giornate, delle fi nalità effi mere; cultura che irride al diavolo, “il sarto dell'ultima ora”. Dolcissima e struggente quella pietà per la giovane Butterfl y: “Sull'estremo confi ne del mare / non scorgo fumo o vela. / So che non torna”. Quando l'amore senza condizioni è diretto a chi non lo merita, a chi non sa o non può ricambiare è l'affronto più insopportabile e vergognoso che l'Amore subisca. “Immolavo fantasticherie / sull'altare della mia purezza. / Come Isacco le ho salvate in corner...” L'arcobaleno dell'Ironia parte dal mito biblico per approdare, ilare, all'espressione tecnico- pallonara. È l'originalità spudorata di una poesia nuova. Una delle poesie più lette e rilette dalla sottoscritta è intitolata “Divertissement senza parole”: interpretazione del rapporto Uomo- Natura, alibi di richieste e negate salvezze... un versifi care musicale e istrionesco, un canto di beffarda ironia che esorcizza angosce e solitudini. Vige in tutto il testo di Palumbo un simbolismo decantato e vigile. Colpisce la scrivente quel rendez- vous con Dio. Incontro nel vento con un Dio che prende le nostre mani e bacia sulle labbra! Un Dio che ci sta accanto, noi fragili sterpi, egoisti fuscelli unti di malizia. Un Dio “anticlericale” come quello dei grandi religiosi da Francesco a Giovanni Bosco, da Padre Kolbe a suor Teresa... a l'abbé Pierre! Questa mia svolazzante interpretazione, niente affatto fi lologica, ma lirica, lirica sì, della poesia di Gianni Palumbo vuol essere solo augurio di leggere ancora versi e prose dell'autore.
Autore: Gianna Sallustio
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