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Nella sacrestia di S. Stefano
15 marzo 2010

Nel 1938, Giacinto Panunzio (1889-1976) affi dò alle edizioni Macrì di Bari la stampa della raccolta di poesie dall’icastico titolo (come scrisse Italo Evangelisti nel 1993), Poesia. IV e V serie. Ansie e speranze. Fra terra e cielo. Egli stesso, nella prefazione, così avverte il lettore: «mi metto a ricopiare da altri miei appunti e poesie, che corrono in serie parallela alle già edite (Cappelli 1930)»; è infatti del 1930 la raccolta intitolata Poesia. Mammole. Lacrime e fi amme. Semprevivi 1906-1930. Alla antologia del 1938 appartengono alcune poesie, che evocano l’atmosfera della Settimana Santa così come era vissuta a Molfetta; scritte tra il Venerdì di Passione ed il Giovedì Santo del 1927, descrivono «l’approdo consapevole alla fede cattolica» dell’autore, «sincero e generoso utopista» (Evangelisti). Nella austera Passa l’Addolorata, Panunzio si soff erma ad ascoltare l’eco del pianto disperato delle donne, che oggi non piangono più nelle chiese: «ma poi ci son le donne e mamme a nero/Oppur per voto scalze/E v’arde la passion pel fi glio a mare/Od il ricordo del fi gliol già morto». Tralasciando Martedì Santo, dagli accenti intimisti, appare inaspettata fonte di notizie storiche tra le righe, Nella sacrestia di S. Stefano, datata Mercoledì Santo 13 aprile 1927. A 38 anni Panunzio scrive: «non perdo mai l’Uffi cio delle Tenebre», emblematica aff ermazione di chi, non confratello di Santo Stefano, respirava tuttavia l’ ”aria” della Settimana Santa in casa di suo cognato Gabriele Poli. Quella di Panunzio è una religiosità laica nel senso più elevato del termine; si pensi, un apologeta salveminiano che si soff erma a descrivere poeticamente una liturgia peculiarmente riservata ai confratelli dal Sacco Rosso, vivendola insieme ai confratelli anziani in sagrestia. Un “socialista idealista”, come mi suggerisce oggi Giuseppe Saverio Poli, fi glio di Gabriele e suo allievo di Francese, giacchè Panunzio fu rinomato professore nei Licei. Ecco il testo di quella poesia: «Non perdo mai «l’Uffi cio delle Tenebre»/I cantori dell’organo lassù/-Com’essi fosser poi tanti usignoli-/ Rifanno il verso a quelli che nel coro/Spremono – più ventriloqui che bassi/I treni tristi… le lamentazioni/ Sono tutti cantanti improvvisati/Molti digiuni aff atto di Latino/ Onde una strage di lunghe e di brevi/Accusano i caratteri consunti/ Dall’uso secolare ed i più anziani/Ne incolpano la vista. Ed a quel bujo!.../Si spenge ad ogni salmo una candela/Ma che bellezza che profondità/Nelle parole! Che brividi sacri!». Interessante il riferimento ai «cantori dell’organo», che Panunzio defi nisce “usignoli”; In quegli anni prestavano il loro servizio musicale, durante le funzioni celebrate a cura della Arciconfraternita dal Sacco Rosso, tre cantori ed un organista che suonava l’organo De Rossi-1827; ciò lo si apprende dal bilancio confraternale del 1926 in cui è indicato il nome dell’organista Luigi Cervellera, mentre si omettono i nomi dei cantori. Come interpretare il termine “usignoli”? Forse Panunzio ascolta voci di tenore lirico leggero o di falsettista? A mio avviso, inoltre, è verosimile che i cantori, non cantassero unicamente i salmi alternatim con il popolo, ma che interpretassero le antifone ed i responsori dell’Uffi - cio delle Tenebre. Non sembra inverosimile ipotizzare che essi eseguissero i brani composti da Antonio Pansini, maestro di cappella del ‘700: infatti ancora nel 1937, il confratello organista Saverio Binetti trascriveva l’Uffi zio della Settimana Santa (1740) di Pansini, per eseguirli espressamente in Santo Stefano. Altra signifi cativa poesia panunziana del 1927 é Giovedì Santo in cui è evocato addirittura il fi losofo Nietzsche. In Stabat Mater di Rossini, il poeta si lascia andare ad un parallelo tra il Rossini buff o del Barbiere di Siviglia ed il Rossini serio dello Stabat (e mi piacerebbe aggiungere, della apicale Petite Messe Solennelle?): «quegli che seppe il riso sano e largo/Di Figaro tradurre/Eco fedel fu del più sacro pianto». Lo Stabat, già dagli anni’10 del Novecento era eseguito a Molfetta durante i concerti tenuti nel salotto mondano di casa Peruzzi; potrebbe essere questa popolarità il motivo che spinse Panunzio a scrivere una vibrante poesia. Già nel 1922 Panunzio aveva scritto Di passaggio per Andria: Le Ceneri, in cui l’evocazione del suono della tromba, che segna l’inizio della Quaresima molfettese, è legata al ricordo di suo zio Gioacchino Poli (1853-1924, repubblicano e confratello di Santo Stefano dal 1880), fi glio di quel Giacinto Poli che aveva fatto pubblicare a Napoli nel 1851 Una processione del Venerdì Santo, con dedica a René de Chateaubriand. Nel marzo del 1923, Panunzio scrive Vado dietro a Cristo Morto, in cui ricorda la marcia funebre Palmieri, eseguita durante la processione del Venerdì Santo già da molti anni addietro; la composizione, ben nota ed apprezzata, era diventata icona della marcia funebre, insieme a Conzasiègge di Vincenzo Valente: «fi - lano lente… piangono le note/Di Palmieri…E’ la gala». A tutt’oggi non é nota né la data di composizione, né il nome dell’autore di quella marcia che potrebbe essere del 1880 o del 1840, come alcune fonti indicano. Un Panunzio maturo torna sull’argomento della Settimana Santa nel 1949 pubblicando, su Il Momento, la poesia Ci siamo; due anni più tardi, nel 1951, in Nostalgia (pubblicata su La voce di Molfetta) descrive l’incontro tra Saverio La Sorsa studente e Gaetano Salvemini «in un vespro fi orentino» (ringrazio l’amico Vittorio Valente per avermi fatto consultare una copia originale del giornale in questione). L’atmosfera delle processioni è al centro dei ricordi entusiastici e commossi di La Sorsa: un sogno infranto dal commento dell’agnostico Salvemini, che «tirò a studiare lo stesso».

Autore: Giovanni Antonio del Vescovo
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